Convegno interclubs “Uno sguardo sul bullismo”

 


LIONS CLUB ROMA AURELIUM
Annata 2009 - 2010

Il fenomeno del Bullismo

A cura di Carmelo Licitra Rosa


6 maggio 2010

 

INDICE
PRESENTAZIONE
BULLISMO: DEFINIZIONE E CARATTERISTICHE GENERALI
BULLO, VITTIMA, GREGARI, SPETTATORI: IL GIOCO DELLE PARTI
BULLO E VITTIMA: FATTORI DI RISCHIO E CARATTERISTICHE PSICOPATOLOGICHE
BULLISMO E SUOI RAPPORTI CON L’AGGRESSIVITÀ.
GRUPPO E IDENTITÀ: UNA LETTURA POSSIBILE DEL BULLISMO
DA MARLON BRANDO A 50 CENT, PASSANDO PER ARANCIA MECCANICA: COME CAMBIANO I MODELLI DEL GRUPPO E LA FUNZIONE DEL LEADER
IL BULLISMO SUL WEB
STRATEGIE DI INTERVENTO E PREVENZIONE
BIBLIOGRAFIA


PRESENTAZIONE

A scuola un gruppetto di ragazzi
mi deride ogni giorno…
non ho più voglia di andarci,
non ho voglia di fare niente,
non valgo niente.
Dal diario di un alunno

Le pagine di questo opuscolo raccolgono alcuni contributi sulla tematica scottante e sconcertante del bullismo, che periodicamente torna alla ribalta delle nostre cronache e dei rotocalchi. Tali contributi sono stati elaborati da un’équipe di psichiatri, psicologi e psicoterapeuti, da me coordinati, che si cimentano con i fatti umani - individuali e collettivi - in un orizzonte multidisciplinare, convergente però nella prospettiva privilegiata e illuminante dell'approccio psicoanalitico, così come si delinea a partire dalla lezione di Freud e dall'insegnamento di Lacan. Come tale questo breve scritto collettaneo costituisce il frutto genuino di un tipico lavoro maturato all’interno di quello speciale laboratorio che è l'INPLA, di cui sono attualmente presidente: un luogo, l’INPLA, ove si fa tesoro della ricerca teorica e dell’esperienza clinica pluriennali che formano il ricchissimo patrimonio dottrinale dell'Associazione Mondiale di Psicoanalisi del Campo freudiano, di cui mi onoro di essere membro assieme a buona parte dei colleghi qui intervenuti.
L’occasione specifica per questa messa al lavoro collettiva è stata la lodevole iniziativa promossa dai Lions, che si è concretizzata in una proposta esplicita di collaborazione da parte dell’amabile ing. Mele, il presidente del Lions Club Aurelium di cui sono socio, e che ringrazio per l’opportunità di studio e di lavoro che così ci ha dato.
I testi, come si potrà constatare, sono tutti molto intensi e meditati, e nel loro insieme si sforzano di circoscrivere, di contornare con pertinenza e precisione alcuni aspetti dell'argomento, senza trascurarne nessuno dei risvolti e degli addentellati.

Il bullismo può essere definito come un'oppressione psicologica o fisica, reiterata nel tempo, esercitata da una persona o da un gruppo nei confronti di un'altra persona o di un altro gruppo percepiti come più deboli. Esso è caratterizzato da quattro fattori: l'intenzionalità, la persistenza, l’asimmetria di potere, la natura sociale del fenomeno. L'intenzionalità è evidente nella premeditazione con cui il bullo mette in atto i suoi comportamenti aggressivi per offendere, umiliare o danneggiare l'altro; la persistenza condensa come tali prepotenze siano tendenzialmente ripetitive e protratte nel tempo; l’asimmetria di potere sintetizza lo squilibrio e la disuguaglianza di forze propria dell’interazione tra il bullo e la sua vittima; infine, la natura sociale del fenomeno si evince chiaramente dal fatto che gli episodi vengono perpetrati quasi sempre alla presenza di compagni, spettatori o complici.
Si sottolinea ogni volta l’importanza cruciale della prevenzione stante che, in mancanza di un precoce riconoscimento dei segnali d'allarme, è opinione unanime che queste forme di sopraffazione tendano ad amplificarsi e a degenerare, compromettendo lo sviluppo e l'integrazione sociale dei bambini e degli adolescenti. Uno dei luoghi elettivi in cui più di frequente è dato imbattersi in questa forma di disagio è senza alcun dubbio l’ambiente scolastico. Qui la prevenzione non può ridursi alla promozione di attività occasionali, ma deve riuscire a predisporre strategie educative adeguate in grado di favorire il confronto fra tutti gli attori co-implicati nel fenomeno in questione.
Di recente l'Ufficio scolastico regionale per il Lazio, d'intesa con l'Osservatorio regionale permanente sul bullismo, ha presentato i risultati di una ricerca all’uopo commissionata. Vi si può leggere fra l'altro che “il bullismo è un fenomeno a più dimensioni, che troppo spesso viene enfatizzato o confuso con altri fenomeni quali la violenza, gli atti vandalici, i furti. I mass media utilizzano spesso questo termine come sintesi significativa e incisiva per parlare di tutte le manifestazioni di disagio, di violenza, di aggressività che riguardano i bambini o i giovani, creando un forte disorientamento nell'opinione pubblica. L'istituzione scolastica svolge inevitabilmente una funzione di calamita, che attrae su di sé tutte le tensioni e le dinamiche che sono presenti nel nostro complesso sistema sociale, rendendo così sempre più difficile l'importante missione che è chiamata a svolgere, ossia quella di garantire il successo formativo dei giovani attraverso la piena valorizzazione della persona e la maturazione di senso critico e senso civico, rispetto degli altri e delle regole”.

Certamente questo opuscolo, ad una lettura accurata, mostrerà tutte le sue carenze e le sue lacune. Ciò è in qualche modo inevitabile, anche e soprattutto in ragione delle sue finalità, che non sono quelle della completezza o dell'esaustività, e nemmeno quelle di un assoluto rigore scientifico, quale si converrebbe per esempio ad un lavoro di stampo più prettamente accademico.
La sua finalità è più modesta, ovvero di schietta informazione. Esso si prefigge infatti di raggiungere una larga fascia di fruitori, gli operatori in primo luogo (insegnanti, educatori, genitori ecc…), ma anche - perché no! - gli adolescenti stessi, quali diretti interessati, offrendo loro uno strumento agile e leggero, ma non per questo approssimativo o insufficiente.
Raggiungerli con quale intento? Quello, in primo luogo, di stimolare una certa riflessione e poi, in secondo luogo, di trasmettere un messaggio rassicurante e incoraggiante, che però non dissimuli la complessità del fenomeno e tutte le difficoltà dell'approccio: come la maggior parte dei fenomeni umani, anche il bullismo, se correttamente inquadrato e affrontato, ha delle concrete possibilità di essere contenuto e di vedere smorzata la sua virulenza e i suoi effetti deleteri.
Una sola cosa potrà risultare deludente: il fatto che non venga proposta nessuna ricetta generale, applicabile automaticamente, meccanicamente in tutte le situazioni omologhe. Già, perché a leggere con attenzione tutto il materiale qui raccolto, si potrà comprendere senza fatica come bullismo sia di fatto nulla di più che una mera etichetta, utilizzata per designare una certa tipologia di posizione soggettiva, partecipe di quella soggettività moderna, distorta e sfigurata dai rimaneggiamenti massificanti e spersonalizzanti indotti dall'odierno assetto della civiltà. Non c'è dubbio però che, malgrado queste deformazioni, una soggettività di pieno diritto è installata saldamente al cuore delle manifestazioni umane più aberranti della modernità, ivi compreso il bullismo, e questo condiziona in modo decisivo qualsivoglia tentativo di abbordarle. Ne deriva pertanto che l’approccio al bullismo non potrà che essere quello dell'uno per uno, quello della più rispettosa singolarità, con tutte le incertezze, i rischi, i fallimenti, gli insuccessi a ciò immancabilmente connessi.
Avremmo voluto ben additare delle soluzioni facili, rapide e pronte all’uso, senza scomodare concetti sospetti, come quelli di verità soggettiva o di godimento pulsionale nefasto, e senza dover insinuare, a lato di questi concetti, la refrattarietà o irriducibilità di tali istanze, di tali matrici causali a schemi cognitivi normalizzanti. Avremmo voluto ma non abbiamo potuto, proprio perché non miriamo a nutrire illusioni e nemmeno vogliamo scadere nella denuncia dozzinale del disfacimento morale globale e nella concomitante inevitabile invocazione della rigenerazione etica, della riscoperta dei valori, del ripristino dell'autorità incrinata. C'è – beninteso - chi prova ad imboccare questa strada, che noi non disdegniamo affatto, e anzi rispettiamo poiché quasi sempre leale e convinta, ma diffidiamo che essa possa fattivamente produrre dei risultati tangibili (abbiamo evidentemente le nostre ragioni – non ideologiche ma teoriche - per concludere in questo senso); e pensiamo invece che lì dove è istituito un soggetto, più o meno seppellito e schiacciato sotto una coltre, talora davvero pesante, di identificazioni, tutto risulta più spinoso, irto e delicato.

Roma, 8 febbraio 2010

Carmelo Licitra Rosa
psichiatra, psicoanalista

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Bullismo: definizione e caratteristiche generali

Emanuela Apicella

Il termine bullismo deriva dall’inglese bullying, dal verbo "to bully", letteralmente prevaricare, ed è utilizzato per definire un fenomeno sociale importante e pericoloso che interessa adolescenti e giovani e di cui, soprattutto negli ultimi anni, si sente parlare sempre più spesso. E allora ci si chiede se anche per il bullismo non sia possibile parlare di una “sindrome culturale” legata al contesto storico e sociale in cui viviamo. Può il bullismo essere considerato il sintomo di un disagio relazionale che si manifesta nei giovani di oggi?
In realtà già Edmondo De Amicis, nel suo libro Cuore del 1886 descrive un personaggio con le tipiche caratteristiche del bullo di oggi; è il personaggio di Franzi che l’autore dipinge con queste parole: “È malvagio. Quando uno piange egli ride. Provoca tutti i più deboli di lui. Non teme nulla, ride in faccia al maestro, ruba quando può, nega con faccia invetriata, è sempre in lite con qualcheduno. Egli odia la scuola, odia i compagni, odia il maestro.” La malvagità, la spavalderia, l’aggressività, la refrattarietà alle regole sono caratteristiche comuni nei “bulli” di ieri e di oggi. Si potrebbe pensare che i “bulli”, i prevaricatori, non siano figli dei nostri tempi ma siano sempre esistiti, come se affermare la propria supremazia sui più deboli sia un copione che si tramanda da secoli e al quale, ahinoi, risulta quasi impossibile trovare una soluzione. Probabilmente oggi i media permettono una maggiore diffusione di informazioni, che contribuisce alla globalizzazione dei fenomeni sociali.
Gli studi sul bullismo iniziano negli anni ’70, dapprima in Scandinavia, con gli studi di Olweus, per poi diffondersi nel resto d’Europa. La definizione più diffusa di Bullismo si deve proprio a Dan Olweus, considerato la massima autorità in materia, che definisce il fenomeno nel seguente modo: ”uno studente è oggetto di azioni di bullismo, in altre parole è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o di più compagni”. Si noti come con questa definizione non ci si riferisca ad un singolo atto ma ad una situazione relazionale che si perpetua nel tempo.
Il bullismo può inoltre essere definito come "un'azione che mira deliberatamente a fare del male o a danneggiare; spesso è persistente ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittima" (Sharp e Smith, 1995).
Gli episodi di bullismo avvengono con maggiore frequenza negli ambienti scolastici: aule, corridoi, cortile, bagni, in genere luoghi isolati e poco sorvegliati; anche durante il tragitto casa-scuola si può essere vittime di azioni di bullismo.
Ma chi è il bullo? Dati epidemiologici dimostrano come il fenomeno del bullismo riguardi soprattutto persone di sesso maschile, anche se negli ultimi anni si è assistito ad un aumento degli atti di bullismo da parte delle femmine; tale fenomeno tende a decrescere con l’età e interessa in maniera maggiore ragazzi nell’età delle scuole dell’obbligo. Una recente indagine sul bullismo nelle scuole superiori, condotta in Italia, ha evidenziato che un ragazzo su due subisce episodi di violenza verbale, psicologica e fisica e il 33% è una vittima ricorrente di abusi.

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Bullo, vittima, gregari, spettatori: il gioco delle parti

Emanuela Apicella


La caratteristica principale del bullo è sicuramente l’aggressività: egli è solitamente una persona egocentrica, dominante, con caratteristiche di personalità antisociale, non accetta regole e divieti e tende a reagire d’impulso di fronte alle difficoltà. Gli atti di bullismo vengono perpetrati di solito in gruppo, creando fra i componenti una sorta di gerarchia in cui è possibile distinguere un “capo” e i suoi “gregari” che svolgono un ruolo di rinforzo e sostegno. I gregari sono di solito due o tre persone che, pur non prendendo iniziative personali, rinforzano il bullo nelle sue azioni ai danni delle vittime ed eseguono i suoi ordini. Il gruppo, o meglio “il branco”, autoalimenta la propria forza nei confronti dei più deboli ed ha una funzione di difesa dei meccanismi disadattavi che i componenti continuano a perpetrare, trovandosi molto spesso circondati da una serie di persone indifferenti che fanno da “pubblico”. Il processo di coinvolgimento dei compagni di classe nelle prepotenze è regolato da alcuni meccanismi psicologici identificati dalla letteratura: un processo di contagio sociale, cioè il fatto che il bullo diviene un modello desiderabile per la sua prestanza e forza fisica soprattutto da parte dei compagni più insicuri, i quali possono arrivare a mettere in atto comportamenti aggressivi al fine di emularlo (Olweus, 1993); l’abbassamento dei freni inibitori, che solitamente limitano l’agire aggressivo negli spettatori (Olweus, 1973, 1993); talvolta la diffusione di responsabilità, quando cioè la prepotenza agita insieme ad altri non viene più percepita come una scelta autonoma ma come una responsabilità comune e non individuale (Bonino, 1997).
Chi sono invece le vittime “preferite”dai bulli? Olweus distingue vittime passive e vittime provocatrici. Le vittime passive sono persone solitamente insicure, tendenzialmente ansiose, timide e con bassi livelli di autostima, che spesso presentano alcune caratteristiche fisiche che i bulli prendono di mira nel crudele gioco degli insulti. Il continuo perpetrarsi di atti di prevaricazione nei confronti delle vittime influisce sul rendimento scolastico e può determinare l’insorgenza di comportamenti volti ad assentarsi da scuola. Le conseguenze del bullismo sono notevoli, a volte purtroppo irreparabili: il danno per l'autostima della vittima si mantiene nel tempo e induce la persona a perdere fiducia nelle istituzioni e nella famiglia. Le vittime provocatrici sono invece persone caratterizzate da tratti caratteriali di irrequietezza ed irritabilità, può succedere che le vittime diventino a loro volta aggressori verso i più deboli (Schwartz et al. 2002). Si parla in questo caso di bulli-vittima. Ma in questo “teatro della prevaricazione” è possibile definire oltre agli “attori principali” anche figure più sfumate che fungono da spettatori, si tratta cioè di persone che assistono alle azioni di bullismo e possono essere distinte in: sostenitori del bullo (incitano e sostengono il bullo), difensori della vittima (consolano la vittima o cercano di difenderla), maggioranza silenziosa (persone che assistono indifferenti alle prepotenze). Il bullo quindi continua a perpetrare le sue azioni ai danni delle vittime, talvolta incoraggiato, più raramente osteggiato. Bisogna inoltre definire quali sono le caratteristiche che un comportamento aggressivo deve avere affinché si possa parlare di bullismo: l’intenzionalità, la persistenza nel tempo e il disequilibrio fra il bullo e la sua vittima – il bullo solitamente ha un’età maggiore della sua vittima, una maggiore prestanza fisica, una maggiore popolarità (Fonzi A. (1997a), Il bullismo in Italia.)
È possibile distinguere varie forme di bullismo:
• Verbale: quando gli attacchi contro la vittima si manifestano con insulti o minacce
• Fisico: percosse e maltrattamenti
• Psicologico: caratterizzato da isolamento sociale, pettegolezzi.
Il bullismo psicologico è la forma agita soprattutto dalle femmine, meno inclini alla violenza fisica (Crick et al. 1994). Questa forma di violenza è sicuramente meno eclatante ma non meno dolorosa. Questo tipo di sopraffazione è particolarmente insidioso perché viene difficilmente notato dagli insegnanti e, anche quando venga rilevato, consente comunque possibilità di intervento molto limitate in quanto si dovrebbe intervenire sulle “relazioni amicali”. La prevaricazione fisica sembra essere diffusa in particolare nelle scuole elementari, mentre con il passaggio alle scuole secondarie diventa prevalente la prevaricazione verbale e la forma di bullismo psicologico (Smorti, Ciucci et al., 1997). Con la crescita, dunque, diminuiscono gli atti di violenza fisica e si rendono più evidenti modalità subdole di prepotenza, come l’esclusione dal gruppo e le maldicenze.
Negli ultimi anni si è inoltre affermata una nuova forma di bullismo, il cosiddetto “cyberbullying” o “bullismo digitale”: i bulli filmano e mettono in rete le loro “imprese”, in modo da infliggere un’ulteriore umiliazione alla vittima e, allo stesso tempo, la violenza esibita e sfoggiata sui siti web diventa uno strumento per confermare il proprio potere ed affermare la propria supremazia.
Per quanto il fenomeno del bullismo interessi in particolar modo una sola fase della vita che è rappresentata dal periodo delle scuole dell’obbligo, molti studi dimostrano come i bulli e le loro vittime abbiano un elevato rischio di sviluppare, in età adulta, una serie di disturbi. I bulli, infatti, sono spesso individui che svilupperanno disturbi di personalità o continueranno a perpetrare comportamenti abnormi che vanno dall’abuso di sostanze a seri atti di violenza fisica (Colvin G, et Al. The school bully: assessing the problem, developing interventions, and future research directions. Journal of Behavioral Education 1998;8:293–319). Le vittime sono invece persone a grave rischio di sviluppare disturbi depressivi ed ideazione suicidaria (Klomek AB et al. Childhood bullying as a risk for later depression and suicidal ideation among Finnish males. J Affect Disorders 2008;109:47–55). Ad ogni modo, il grande interesse che questo fenomeno ha provocato negli ultimi anni non è servito a far sì che gli episodi di bullismo si riducessero.

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Bullo e vittima: fattori di rischio e caratteristiche psicopatologiche

Leonardo Mendolicchio

Il bullismo è considerato un sottoinsieme del concetto più generale di aggressione. Una definizione concisa dell’aggressività è stata presentata da Anderson e Bushman (2002): “l'aggressività umana è un qualsiasi comportamento diretto verso un altro individuo con l'intenzione di provocare un danno”. L’aggressione comprende diverse sottocategorie diverse tra cui aggressione reattiva, proattiva, palese e relazionale. Lo sviluppo della ricerca in questo campo ha portato all’esame delle varie tipologie di comportamenti aggressivi, tra le quali anche il bullismo.
Il collegamento tra bullismo ed aggressività sembra essere evidente anche se un modello teorico di correlazione non è stato ancora sistematizzato. Tale mancanza di sistematizzazione teorica è causata anche dal fatto che una definizione condivisa di bullismo ancora non c’è.
Arora (1996) mette in guardia contro l'uso di una definizione molto rigorosa del bullismo perché questa spesso non riesce a prendere in considerazione l'intero contesto del fenomeno. Peterson e Rigby (1999) descrivono come ''bullismo” il comportamento di un ragazzo quando è volutamente male intenzionato contro qualcuno più debole senza una buona ragione. Ciò può essere fatto in diversi modi: dall’utilizzo di parole ingiuriose alla minaccia di azioni o gesti. Non sarebbe bullismo quando due persone simmetriche rispetto ai rapporti di forza fisici ed emotivi sono in contrasto ed agiscono violenza.
Greene (2000) ha suggerito che tuttavia esisterebbero cinque caratteristiche del bullismo, rispetto alle quali un certo numero di ricercatori hanno concordato:
1. Il bullo ha intenzione di nuocere o di fare paura alla vittima.
2. L’ aggressione verso la vittima si è verificata ripetute volte.
3. La vittima non provoca “il bullo” utilizzando l'aggressione verbale o fisica.
4. Il bullismo si verifica nei contesti sociali.
5. Il bullo è più potente (in modo reale o percepito) rispetto alla vittima.
Per quanto riguarda le fasce di età pare che il fenomeno abbia un picco tra gli 11-13 anni e vada poi a decrescere sino ai 19 anni. Tuttavia chi ha presentato un comportamento violento da bullo continuerebbe a presentarlo con il gruppo dei pari, anche se in modo circoscritto.
I comportamenti aggressivi diretti, fisici, ingiuriosi sono agiti maggiormente da soggetti di sesso maschile mentre le femmine attuerebbero comportamenti più indiretti nel campo relazionale.
È opportuno sottolineare che la prepotenza del bullo non è dovuta ad insicurezza e scarsa autostima come si potrebbe pensare; al contrario si tratta di bambini sicuri di sé, con elevate abilità sociali. Hanno ottime capacità psicologiche che vengono, però, utilizzate al fine di manipolare la situazione a proprio vantaggio, il tutto accompagnato da un forte bisogno di dominare gli altri. Inoltre, solitamente manifestano importanti difficoltà nel rispettare le regole e nel tollerare le frustrazioni. Il rendimento scolastico è vario ma tende ad abbassarsi con l'aumentare dell'età e, parallelamente a questa, si manifesta un atteggiamento oppositivo verso la scuola.
Il bullismo è spesso stato riscontrato significativamente correlato con impulsività e depressione. Alcuni autori (Greene, 2000) sottolineano che anche se i bulli non sono molto popolari con gli altri bambini, risultano socializzare con i coetanei aggressivi.
Per quanto riguarda le conseguenze del bullismo va detto che alcuni studi hanno mostrato come il 70% dei bulli entro i 24 anni abbia commesso reati punibili dalla legge. Ciò lascerebbe supporre che il bullismo rappresenti un fattore di rischio per alcuni disturbi psichiatrici come il disturbo di personalità antisociale. Uno studio Inglese (Salomon, 1998) ha evidenziato che le vittime vadano incontro a quadri di ansia ed evitamento. Tali disturbi tenderebbero a cronicizzarsi insieme ad una compromissione del funzionamento sociale, emozionale e comportamentale.

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Bullismo e suoi rapporti con l’aggressività.

Giorgio Fanelli

Vidi ego et expertus sum zelantem parvulum: nondum loquebatur et intuebatur pallidus amaro aspectu conlactaneum suum: “ho visto con i miei occhi e ho ben conosciuto un bambino piccolo in preda alla gelosia. Non parlava ancora, e già contemplava, pallido e con sguardo torvo, il fratello di latte”.
Lacan, rievocando Sant’Agostino, introduce una via alla comprensione dell’origine dell’aggressività umana.
È infatti possibile individuare, nel campo della psicoanalisi, attraverso le coordinate logiche che lui ha saputo stabilire, quel punto originario, cui il lettore potrà rimandare la sua esigenza conoscitiva, negli scritti: “Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io” e “L’aggressività in psicoanalisi”.
Il discorso che da titolo a questo contributo sul bullismo, prende spunto dalla considerazione teorica e clinica, che considera l’aggressività come esperienza costituiva della soggettività umana, intimamente legata al processo di formazione di ciò che in psicoanalisi chiamiamo “Io”. L’esperienza clinica, infatti, dimostra come questo sia vero anche in un luogo, quello della cura analitica, che fonda la sua prassi sulla parola, parola che, seppure sostituendosi nel discorso a ciò che viene chiamato un atto propriamente aggressivo, non ne annulla gli slanci, che restano sottesi in forme più o meno elaborate nello stesso discorso analitico.
In questa direzione, l’aggressività può assumere la forma di una intenzione, intenzione aggressiva nella fattispecie, che immancabilmente si presenta all’attenzione dello psicoanalista sottoforma di rivendicazioni, esitazioni, inflessioni e lapsus, inesattezze nel racconto, irregolarità nell’applicazione della regola analitica, ritardi o assenze calcolate alle sedute, recriminazioni, reazioni di collera, rimproveri, timori, intimidazioni e via discorrendo. Queste forme che chiameremo intenzionali di aggressività, sembrerebbero ripararci, ci conforta Lacan, dalle violenze propriamente dette, che in analisi restano piuttosto rare.
Orientare l’attenzione su un punto cardine del fenomeno bullismo, di cui si vogliono illustrare le coordinate per inquadrarne meglio le espressioni fenomeniche che attraversano il tempo, lo spazio e la cultura di riferimento, rappresenta un tentativo per reintrodurre in questo discorso la soggettività, il particolare, in un tema, appunto, che sembrerebbe aver preso la deriva di un fenomeno moderno, sociale ed evolutivo.
L’osservazione del bullismo, infatti, non può non ricondurre l’attenzione come più volte sottolineato nei paragrafi che precedono questo scritto, al rapporto privilegiato che questo fenomeno intesse con l’aggressività, di cui precedentemente abbiamo disegnato le sfumature fenomeniche, dal polo dell’intenzione fino all’atto, sfiorandone le coordinate costitutive: intersoggettive, speculari e fondamentali al processo di costituzione dell’Io.
Questo, tuttavia, non dovrebbe sorprendere l’attento osservatore dei fenomeni sociali: già Lacan sottolinea nel 1948 che “la preminenza dell’aggressività nella nostra civiltà sarebbe già dimostrata a sufficienza dal fatto che abitualmente essa è confusa nella morale media con la virtù della forza”. Potremmo quindi considerare il bullismo dal versante della dimostrazione di forza, affermazione sociale in rapporto allo “spazio fisico”, che palesa un godimento mal celato nella dissimetria con l’altro, il proprio simile.
Ancor prima Hegel aveva proposto la teoria della funzione dell’aggressività nell’ontologia umana, spiega Lacan: “Se è vero che nel conflitto del Padrone e del Servo ciò che è in gioco è il riconoscimento dell’uomo da parte dell’uomo, è anche vero che esso è promosso sulla base di una negazione radicale dei valori naturali, sia che si esprima nella tirannia sterile del padrone o in quella feconda del lavoro”. Dunque, in un rapporto tra due contendenti in posizione asimmetrica, la dimensione propriamente naturale cederebbe il posto a tutte quelle forme possibili di relazione simbolica con l’altro. Così, puntualizza ancora, sia che si parli dei costumi sociali sia che ci si riferisca al campo di studio preferenziale della psicoanalisi, il soggetto, è l’assenza crescente di tutte quelle saturazioni del superio e dell’ideale dell’io, dimensioni affatto naturali, elementi di struttura dello psichismo e punti di riferimento nell’atlante geografico dell’esistenza sociale sottoforma di riti e feste in cui la comunità si manifesta, a rappresentare la causa di ciò che si osserva comunemente nella società contemporanea, avviluppata “all’anarchia democratica delle passioni” e sorretta da un’idea sempre più fallace di un Io evolutivo presunto regolatore, regolarizzante della dimensione propriamente naturale dell’esistenza.
La posizione dalla quale si osserva un fenomeno, ovviamente, ne compromette l’osservazione. Potremmo considerare il bullismo dalla parte del carnefice o del gruppo di carnefici più o meno direttamente coinvolti nella scena sadica. Oppure dalla parte della vittima più o meno reattiva a ciò che avviene nella dinamica della scena masochistica. Considerando la questione dal punto di vista evolutivo, ci evidenzierebbe da subito una rappresentazione scenica, si perdoni il semplicismo, in cui da una parte avremmo un Io forte (o debole) che aggredisce, e dall’altra un Io debole (o forte) che subisce. Si noti come la comprensione del fenomeno e la clinica del fenomeno non lascerebbe molto spazio a soluzioni efficaci e percorribili; si resterebbe sullo stesso piano concettuale: evolutivo ed egocentrico. In effetti, in una direzione, o nell’altra, tale rappresentazione immaginaria di un’istanza in grado di regolare la tensione aggressiva non troverebbe validi supporti logici e di intervento. Considerare l’Io un dispositivo da poter maneggiare e plasmare a piacimento, da sistemare, intravedendone il giusto livello evolutivo da raggiungere (normalizzazione) è piuttosto semplicistico se paragonato alla complessità del tema. In questa direzione, come Lacan ha a suo tempo profetizzato nel suo insegnamento, prenderemmo la via, che va sempre più consolidandosi, dell’oscuramento della struttura a favore di una certa psicologia dell’Io.
Concludendo questo breve intervento, si noterà come nella prima parte, si è voluto offrire un’impressione di strutturalità alla questione del rapporto dell’uomo con il proprio simile, di cui il bullismo è una contemporanea espressione, attraverso una formidabile immagine agostiniana che produce una istantanea degli albori relazionali, a dire il vero piuttosto inquietanti, a fondamento del rapporto tra pari. A ben vedere la cosa, un’interpretazione nell’infante che preannuncerebbe interessanti risvolti nel rapporto con l’altro, cui fortunatamente il tempo e le indispensabili svolte strutturali e sovrastrutturali supportate dall’azione del simbolico forniranno l’occasione per aggiustare il tiro, ovviamente a ben sperare.
Vale la pena, infine, riproporre la serie costituita dall’origine intersoggettiva dell’Io (e i suoi rapporti con il narcisismo e l’aggressività), la crescente contemporanea assenza di tutte quelle saturazioni del superio e dell’ideale dell’io così evidenti nella società moderna - premessa di quella “anarchia democratica delle passioni”, per orientarsi con minore difficoltà tra le moderne espressioni del disagio della civiltà, che chiamiamo sintomi contemporanei, tra i quali annoverare il bullismo.

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Gruppo e identità: una lettura possibile del bullismo

Alessandro Arena

I ragazzi si riuniscono in gruppi: è un dato facilmente osservabile e unanimemente condiviso, ma risulta meno facile descrivere le modalità con cui i ragazzi stanno in gruppo.
Una volta il modello “classico” era quello del “gruppo dei pari”, in cui i membri erano accomunati dall’aspirazione ad uno stesso ideale.
Il Gruppo (lo scrivo con la maiuscola per indicare la funzione simbolica che esso rivestiva) aveva la funzione di riconoscere il valore dell’Ideale, di stabilire delle dinamiche di competizione “virtuosa” atte a promuovere l’adesione ad esso, di scegliere come leader il membro che maggiormente lo rappresentasse. Ciò implicava che ciascun membro fosse in relazione con ogni singolo altro e che il riconoscimento derivasse dall’essere simile all’Ideale del Gruppo.
Dunque, il rapporto tra il soggetto e il Gruppo era, a sua volta, mediato dall’Ideale: il singolo soggetto poteva rimanere identificato all’ideale e staccarsi dal Gruppo qualora non ne condividesse più le caratteristiche, ma senza perdere il senso della propria esistenza.
Si trattava di gruppi con ideali utili alla costruzione dell’identità soggettiva (l’uomo “macho”, la donna seducente, etc.) e fondati su una posizione etica piuttosto rigorosa (per esempio l’onore o l’amore – cioè l’adesione all’ideale – che implicano, sia pure diversamente, il sacrificio).
Erano gruppi in cui l’aggressività si esprimeva nei rituali di inclusione o nelle condotte di sfida che comportano rischi per la salute fino a quello per la propria vita (compiere atti vandalici, bere alcolici, correre in moto o in auto, ricercare lo scontro fisico, e così via).
Il Gruppo dei pari, però, non esiste più.

Attualmente i gruppi non si costituiscono più intorno ad un ideale condiviso, ma a partire dal bisogno di riconoscimento di ciascuno dei singoli individui. Si tratta, però, di un riconoscimento “diretto” da parte del gruppo, senza la mediazione di un Ideale che faccia da “terzo” tra il soggetto ed il gruppo.
La conseguenza più immediata è che il gruppo assume la funzione di “garante” dell’esistenza dei singoli soggetti: vale a dire che chi non appartiene al gruppo “non esiste”.
Scrivo qui gruppo con la minuscola, poiché esso, in questa accezione, riveste una funzione immaginaria e non simbolica: questo produce un effetto di “alienazione” dei singoli, cioè ciascuno riconosce come proprio ciò che, invece, appartiene al gruppo.
Tale alienazione riguarda le diverse forme in cui si esprime un “modo di essere”: dalla musica che si ascolta, al modo di vestire, al gergo linguistico utilizzato, agli stili di comportamento.
È evidente il fatto che questo modello di funzionamento del gruppo, piuttosto che promuovere la strutturazione di un’identità soggettiva singolare ed autonoma, tende a produrre un’omologazione acritica dei suoi membri.
Ma per avere la prova che “esiste” solo chi fa parte del gruppo bisogna che vi siano persone che ne rimangano escluse e che, proprio per questo, siano trattate come “rifiuti” e non come esseri umani degni di rispetto. L’aggressività in questi gruppi, perciò, si manifesta con modalità di esclusione, fino alla persecuzione o all’aggressione fisica vera e propria.
L’impossibilità della denuncia, per la vittima, sta proprio nel tentativo di rifiutare l’identificazione di “scarto” continuando a cercare di entrare nel gruppo (per ottenerne il riconoscimento e quindi una patente di “esistenza in vita”).
Al tempo del “gruppo dei pari”, il vissuto soggettivo di chi non riusciva a farsi accettare dai membri di un gruppo era di vergogna, intesa come senso di fallimento (rispetto ad una identificazione all’ideale); attualmente, esso è sostituito dal senso di vergogna intesa come indegnità (identificazione allo “scarto”).
Non sempre le vittime riescono a sopportare tutto ciò e quando non ce la fanno tendono a seguire la strada della separazione reale: si fanno bocciare, cambiano scuola oppure si tolgono la vita.

Questa modalità di funzionamento gruppale si esprime trasversalmente nella società e prende nomi diversi a seconda dei contesti, ma in tutti i casi si tratta della stessa dinamica: nella scuola (ambito nel quale ci sono, perlomeno, degli osservatori terzi) viene più facilmente rilevata e prende il nome di “Bullismo”; negli ambiti di lavoro si chiama “Mobbing”; nella coppia si chiama “Stalking”; etc.
Bisogna inoltre rilevare che i gruppi esistono anche oltre l’orario scolastico o addirittura al di fuori: lì si manifestano fenomeni come quello del “Branco” che colpisce la vittima in modo terribile, ma quasi con indifferenza (si vedano gli stupri, l’incendio dei clochard, etc.).
Quando si chiede agli autori di questi atti di spiegare i motivi di tanta ferocia essi generalmente rispondono che è stato “per passare il tempo”, “per la noia”, “per divertirsi”; noi aggiungeremmo “per sentire di esistere”.
La vittima è solo uno scarto, un oggetto, un rifiuto, non un essere umano.

Educare al rispetto degli altri e dei diversi è, evidentemente, una necessità, ma il punto di vista della psicoanalisi è che ciò non è sufficiente: la priorità rimane quella di promuovere nei giovani la costruzione di un’identità attraverso una creazione originale, soggettiva e personale evitando di lasciarli in un vuoto che spinge all’omologazione.

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Da Marlon Brando a 50 cent, passando per Arancia Meccanica: come cambiano i modelli del gruppo e la funzione del leader

Patrizia Noceti

Il gruppo, per gli adolescenti in particolare, costituisce un ”luogo” per l’aggregazione e la socializzazione, permettendo un confronto su temi riguardanti la sessualità e l’affettività e sostenendo lo svolgimento dei compiti educativi. La condizione inconscia della produzione del legame sociale passa per l’identificazione e trova il suo paradigma nell’Ideale dell’io. Il dispositivo cinematografico, tecnica dell’immaginario, ne mostra la rilevanza e il suo valore di raccordo tra pulsione e Civiltà: le vicende raccontate sullo schermo offrono spesso modelli di gruppo articolati secondo modi e termini della socialità rappresentata.
Uno dei film più importanti degli anni ’50 è “Fronte del porto” (1954), una storia di riscatto e di redenzione che si snoda tra pub, malavita e duro lavoro. Il personaggio interpretato da Marlon Brando – Terry Malloy – emerge con una dinamica di ”uscita dal bozzolo”, attraverso l’incontro con un Altro che “ti eleva a ciò che da solo non saresti”. Sorretto dal gesto di masticare la gomma, che dà al personaggio quell’aria da bullo indomito e fornisce elementi di rispecchiamento giovanile, Brando incarna la figura del leader, di colui che rappresenta un Ideale intorno a cui si costituisce il gruppo. Ribelle e anticonformista, egli si pone alla testa del movimento per l’emancipazione dei lavoratori portuali di New York. In questo modello di gruppo ognuno si rapporta all’Ideale attraverso il riferimento al leader. Mediante tale appartenenza la pulsione si fa sociale prendendo la via della rinuncia al godimento isolato ed egoista. Infatti, l’Ideale dell’io risulta effetto della funzione paterna e normativa offrendosi come spunto d’identificazione in cui desiderio e Legge si accordano.
Lo stesso modello è rappresentato ancora da Brando e sempre nel 1954 nel film ”Il Selvaggio”, storia di una banda di motociclisti capeggiata da Johnny. Il giubbotto da lui indossato, il chiodo, diventerà moda e simboleggerà quel misto di strafottenza e di romanticismo che caratterizza il leader anche nella sua funzione di capro espiatorio degli acting giovanili. Il riferimento del film è ai bikers, cioè ai motociclisti che vivono on-the-road e seguono una filosofia (l’Ideale) basata sulla fratellanza intesa come spirito di corpo che unisce i membri dello stesso gruppo e l’orgoglio di indossare i colori di un club motociclistico. Nella metà degli anni ’50 si definisce, allora, un cinema attento ai fenomeni sociali e soprattutto al nascente universo giovanile, che il cinema stesso contribuì ad alimentare. Indipendentemente dai principi condivisi e dalla loro accettabilità in termini di consenso sociale, il gruppo è costituito intorno al leader, colui che più rappresenta un Ideale come terzo strutturante.
In ”Gioventù bruciata” James Dean, diretto da Nicholas Ray, mette in scena la drammatica storia di un gruppo di adolescenti alle prese con il difficile passaggio all’età adulta e con la faticosa ricerca di una propria identità. L’insicurezza esistenziale, la profonda solitudine, l’incomunicabilità con il mondo degli adulti vengono rappresentati nella figura del protagonista – Jim Stark – emblema della vulnerabilità giovanile in cui competitività, continua messa alla prova di se stessi, fretta di vivere e sfida alla morte modellano l’immagine di un ”ribelle” riproposta dall’industria del cinema, della televisione, della musica (il rivoluzionario rock’n’roll) e della moda (jeans e t-shirt).
Ben altro modello di gruppo è quello presentato dall’allucinata, visionaria elaborazione di Stanley Kubrick in ”Arancia Meccanica” (1972), modello emergente da un contesto culturale condizionante, alienante, deformante (musica, linguaggio, arti varie) e definito attraverso “gruppi sociali” auto-referenziali e senza rimandi a valori esterni e idealizzati (educatori e istituti di rieducazione grotteschi, poliziotti criminali, ministri a servizio del ”disordine organizzato”, una politica-potere dedita prevalentemente dell’imperativo di godere). Alex, il protagonista, è un leader repulsivo e attraente, capace di incarnare la parte del soggetto che non prova pietà, quella pietà che, esaltata come valore etico preminente, poggia sull’identificazione immaginaria all’altro. Nel 2001 lo psicoanalista Licitra-Rosa scrive che ”di solito l’altro immaginario viene elevato allo statuto simbolico di prossimo, nei confronti del quale deve prevalere una nobile serie di precetti che prescrivono sentimenti di umana solidarietà e di benevola fratellanza. Eppure, in definitiva, questa duplice copertura, immaginaria e simbolica, serve esclusivamente a mascherare lo statuto reale dell’alterità, in cui si svela la sua natura orribile e spregevole: nella sua vera essenza l’alterità è ripugnante”. A questo livello Kubrick colloca la figura di Alex, il cui svelamento non risparmia neanche i suoi “drughi” (chiamati, in un passaggio, ”pecore e inferiori”) dei quali fa un uso strumentale, ma con cui non condivide sentimenti ed emozioni. Egli è il leader della gang, però nel momento in cui il suo ruolo viene messo in discussione, non esita ad aggredire gli stessi compagni per preservare la propria posizione di supremazia. Il dito puntato sul godimento li richiama ad un imperativo che nulla ha a che fare con principi ed ideali se non “l’esercizio dell’amata ultra-violenza”. In una seconda fase del film le posizioni s’invertiranno: i drughi, diventati poliziotti, incontrando Alex lo umiliano e lo malmenano, delineando la figura di un ex leader ormai svilito e ridotto a scarto. I crimini notturni del gruppo sono comportamenti che plasmano uno stile, un linguaggio, un abbigliamento da condividere e in cui riconoscersi. Eppure all’interno del gruppo le posizioni non si articolano secondo meccanismi di identificazione e passaggi di aspetti ideali, ma poggiano su minaccia e prevaricazione; circola un linguaggio che Cleckley definisce ”afasia semantica”: gli stessi drughi a volte risultano incapaci di cogliere le parole di Alex secondo un significato condiviso. Nel gruppo si sviluppa un clima di ostilità verso il leader per la mancanza di strutturazione e per la resistenza alla struttura. Si rilevano la non-accettazione di norme e la non-condivisione, segno già di crisi del ruolo di leader e del concetto stesso di gruppo. L’assenza di un’istanza simbolica, del Padre dell’alleanza, sfocia nell’uccisione del simbolo attraverso il ricorso agli ideali narcotici come unico mezzo per fare legame sociale: il “Latte più” (latte rafforzato con droghe come la mescalina) servito nel Korova Milk Bar, luogo di ritrovo della banda dei drughi, sottolinea un pieno di godimento, ma anche il deterioramento ultimo della tensione tra sapere e verità espresso con il rimando al “Club des Hashishiens” di Balzac, Gautier e Baudelaire e al loro caffè potenziato dal decotto di cannabis, burro e oppio.
Uno dei modelli di gruppo attuali si caratterizza per una carenza dell’identificazione verticale all’Ideale, soggiacendo, invece, ad un’identificazione orizzontale, reciproca dei vari membri del gruppo, dove le personalità dei capi non raccolgono più le funzioni del leader. Per rappresentare tale configurazione possiamo riferirci a 50 Cent, nome d’arte di Curtis James Jackson (nato nel 1975 a New York) rapper, attore e regista. Il suo successo internazionale è dovuto in primo luogo alle sue vicende personali e al suo passato difficile, ma anche all’immagine tipicamente “gangsta”. Il nome del rapper è associato molto spesso a quello del suo gruppo, la G-Unit, con cui, in vari lavori, ha attaccato e insultato i colleghi (essendo poi a sua volta ricambiato) ed ha realizzato un video in cui celebra un finto funerale al “rivale” Fat Joe. Nato e cresciuto nel Queens, senza mai aver conosciuto il padre, in un ambiente fortemente criminalizzato, a 8 anni perde la madre, eroinomane, uccisa per un regolamento di conti tra trafficanti; intraprende l’attività di spacciatore di crack all’età di 12 anni, si arricchisce con affari illeciti finendo più volte in prigione. Nel 2000, dopo aver abbandonato la droga per iniziare la carriera di cantante rap, viene colpito da 9 pallottole in una sparatoria e, sopravvissuto miracolosamente, resta in ospedale a lungo. Nel 2002 è scoperto e lanciato dal rapper Eminem. Oggi è al secondo posto nella lista dei rapper più ricchi del pianeta. Ha inoltre intrapreso la carriera di attore. Divenuto una celebrità, ha creato una linea personalizzata di vestiti hip-hop ed è protagonista di un videogame per Playstation e X-Box. Il suo personaggio si lega ad un nuovo genere, il ”gangsta rap”, che ha come temi l’illegalità, l’ostentazione del denaro, l’inneggio alle droghe. Si colloca in un contesto in cui la violenza si erge come fattore onnipresente, determinando spesso faide tra gruppi. Se 50 Cent diventa un re seguito dalla sua corte, ciò produce l’avanzamento verso un modello di gruppo che esiste di per sé e in sé, senza l’intermediazione di un Ideale; è un gruppo fonte di riconoscimento per la mera appartenenza al gruppo stesso. Garanzia di preservazione della propria identità è, appunto, la violenza, grazie a cui il gruppo si difende dalla forza centrifuga che, oggi come per la società primitiva, spinge allo spezzettamento e alla dispersione. Allora il gruppo, per pensarsi come tale, ha bisogno dell’espulsione del”nemico”, di quell’oggetto-scarto che gli permette di mantenersi. La violenza è volta a distruggere l’alterità, la quale appare come l’effetto di una perdita d’essere del soggetto e della gang.
Freud ci ha insegnato che la Civiltà (i divieti, le leggi, le regole, lo Stato, insomma, l’autorità paterna) andando a barrare il soddisfacimento pulsionale e costringendo gli esseri umani a rinunciare ad un godimento pieno e al proprio narcisismo, crea in ognuno una divisione irrimediabile che, però, non è solo mortificazione, ma è anche e soprattutto la condizione dello scambio con l’Altro, dell’apertura verso l’Altro. 50 Cent e i suoi, indicando godimenti sregolati, cedimenti etici e delegittimazione dell’autorità, riconducono alle prerogative di unità e totalità dei gruppi isolati e indivisi. Si tratta, in realtà, di gruppi senza capi, senza leader, senza qualcuno che, più di altri, si mostri capace di innalzare la fiaccola dell’Ideale per orientarsi ed orientare nel campo dell’amore, del desiderio e della pulsione.

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Il bullismo sul Web

Adriana Bonioli

“Una cyber-bulla minaccia di morte l’amica di classe su Facebook” (fatto accaduto in Inghilterra)
“Al liceo Albe Steiner di Torino, venivano riprese le violenze su un ragazzo affetto da una grave forma di autismo”
“Shock alla scuola media di Matteo Ripa (Eboli) due ragazzi ed una ragazza vengono sospesi: si masturbano in classe e girano un video”
Episodi di cronaca come questi testimoniano come il fenomeno del bullismo si sia recentemente trasformato e adattato ai mutamenti tecnologici che coinvolgono le nuove modalità comunicative ed espressive dei giovani. Le nuove tecnologie come i cellulari, i videofonini, Internet, i social network come Facebook, Twitter sono i nuovi mezzi di comunicazione utilizzati dagli adolescenti in tutti i contesti della loro vita quotidiana, da quello scolastico, familiare a quello del tempo libero. Ogni adolescente trascorre in media cinquanta minuti al giorno nel Web. Internet, non è più solamente un mezzo per studiare, fare ricerca, ma diventa il nuovo luogo, virtuale, dove moltissimi giovani possono presentarsi creando una loro pagina Web, discutere, socializzare e prendere posizione rispetto ai grandi temi di interesse mondiale. Non stupisce quindi che accanto ad un “buon uso” delle nuove tecnologie, se ne nasconda un altro, distorto e improprio, utilizzato per colpire intenzionalmente persone più deboli ed arrecare un danno alla loro reputazione. Si sviluppa, così, il bullismo elettronico o cyberbullying che ha molteplici manifestazioni: si parla di flaming quando le offese risultano essere isolate e non ripetute nel tempo; di cyberstalking per indicare la persecuzione attraverso l’invio ripetuto di minacce; di outing, ossia il rivelare informazioni private e riservate riguardanti una persona; di impersonation, che consiste nel fingersi un’altra persona per spedire messaggi imbarazzanti a suo nome o per escluderla da un gruppo on-line. In generale si è concordi nel distinguere due forme attraverso cui il bullismo elettronico può manifestarsi: una diretta ed un’altra indiretta. La prima riguarda una serie di atti aggressivi perpetrati dal bullo nei confronti della vittima senza l’uso di intermediari: intimidazioni, minacce, inviate direttamente alla vittima via e-mail o tramite SMS di contenuto sgradevole, aggressivo. Il primo caso di cronaca riportato può rientrare in questa forma. La modalità indiretta si riferisce invece a tutti quegli altri casi in cui gli atti aggressivi vengono perpetrati “alle spalle” di qualcuno, sia attraverso la diffusione ad un vasto pubblico di informazioni tendenziose e spesso false, sia attraverso la divulgazione nel web di immagini private e di video a contenuto violento e/o sessuale, allo scopo di screditare la vittima. Come gli altri due fatti di cronaca sopra riportati ci testimoniano, questi video vengono girati molto frequentemente nelle scuole, attraverso l’uso dei videofonini, il più delle volte, stando alle dichiarazioni dei ragazzi, “per scherzare”, “per puro divertimento”, per tentare di raggiungere “l’estasi mediatica”, uscendo momentaneamente da una normalità che evidentemente li mortifica.

Continuità o discontinuità tra il bullismo tradizionale ed il bullismo elettronico?
L’intenzionalità, la ripetitività e lo squilibrio di potere tra il bullo e la sua vittima sono, come abbiamo visto, le tre condizioni necessarie per poter definire un comportamento come un atto di bullismo tradizionale, contraddistinguendolo da una normale disputa tra pari. Tali condizioni assumono una forma diversa nel bullismo elettronico che può considerarsi un’evoluzione del bullismo tradizionale che, per le caratteristiche del mezzo, assume nuove peculiarità. Infatti, se nel bullismo tradizionale è relativamente immediato leggere l’intenzionalità di colpire nelle azioni del bullo, nel bullismo elettronico la responsabilità può essere estesa anche a colui che, semplicemente visionando un video, decide di inoltrarlo ad altri. In Inghilterra uno slogan che descrive questo aspetto, piuttosto efficace, recita: “Laugh of it and you are part of it” (ridici su e ne sei parte pure tu). Anche la ripetitività merita di essere riconsiderata alla luce della nuova comunicazione virtuale: un solo video, divulgato attraverso Youtube a migliaia di persone, può arrecare un potenziale danno alla vittima per un tempo, tendenzialmente, infinito – il video o il post su un blog sono sempre disponibili ed accessibili a chiunque. Infine se lo squilibrio di potere nel bullismo tradizionale poteva dipendere dalla forza fisica dell’aggressore rispetto alla vittima o dall’attacco in branco, nel contesto elettronico esso è dovuto principalmente all’anonimato dietro cui spesso si nasconde l’aggressore e quindi dalla maggiore difficoltà nel fermare le aggressioni. Tali aggressioni possono avvenire in qualsiasi momento della giornata, all’interno delle mura domestiche, attraverso dei mezzi di uso quotidiano, “rassicuranti”, quali il cellulare ed Internet considerati oramai familiari, intimi. La minaccia anonima può avvenire da parte di chiunque, in qualsiasi momento. Il bullismo elettronico quindi, pur condividendo percorsi di rischio con il bullismo tradizionale, presenta sue peculiarità che secondo alcuni ricercatori ne aumentano la gravità e ne caratterizzano l’intenzionalità che possiamo enunciare così: ”farlo sapere al mondo”.

La comunicazione virtuale: la “disinibizione on-line”
Le nuove tecnologie ci proiettano in una società “mediatica” ben diversa da quella che Platone, riferendosi al processo di Socrate, auspicava quando sottolineava la necessità di un dibattito faccia a faccia tra gli interlocutori quale garanzia di vera democrazia e onestà. L’anonimato dietro cui spesso si nasconde il bullo, l’utilizzo di un altro nome, il nickname, l’essere invisibile, il non mostrare il proprio corpo all’altro, permettono al cyber-bullo di esprimersi più apertamente, di essere meno soggetto alla preoccupazione di come apparire all’altro, favoriscono quella che è stata definita una “disinibizione on-line”, da alcuni descritta ora come “benigna” ora come “tossica”. L’assenza di segnali visivi relativi all’abbigliamento, al corpo, può infatti comportare un minor impatto emotivo dello “status” di una persona su un’altra. La mancanza dello sguardo e della voce (attraverso cui è possibile controllare l’altro della conversazione, interpretarne il desiderio, leggerne la sofferenza) se da una parte può favorire una certa disinibizione “scherzosa” che aumenta la confidenza e la condivisione di vissuti personali con l’altro, dall’altra può facilitare una comunicazione dai connotati volgari e violenti. Non solo. L’assenza nella scena dello sguardo della vittima e del tono della sua voce può impedire all’aggressore di cogliere segnali di dolore e sofferenza, attenuando in tal modo i vissuti empatici nei confronti della vittima stessa, depersonalizzata e ridotta ad oggetto. Lo spazio virtuale può rappresentare per molti individui, “meno dotati” di capacità relazionali e attrattività fisica, una buona occasione per riscattarsi, per avere la stessa opportunità di dar voce a se stessi.
Quindi, l’invisibilità dell’aggressore ma anche della vittima, esprimibile nel “tu non puoi vedermi, io non posso vederti”, è una condizione che crea una certa distanza facilitante la disinibizione e l’amplificazione di contenuto violenti e aggressivi. Accanto a questa forma di distanza emotiva favorita dall’invisibilità e dall’anonimato, se ne crea un’altra, a mio avviso più pericolosa, dovuta alle caratteristiche del “mezzo elettronico” in se stesso, evidenti soprattutto nei video messi in rete e accessibili attraverso Youtube. Trattasi per lo più di video diffamatori dove un ragazzo/a viene ripreso in situazioni intime, potenzialmente imbarazzanti (nei bagni scolastici), riguardanti molestie, episodi di violenza verso un più debole. Ragazzi intervistati in alcune scuole medie hanno dichiarato come le prepotenze, riprese e diffuse on-line, possano sembrare a volte “irreali” e sovrapponibili a dei videogiochi che si prestano ad essere visti più volte, a velocità diverse, semplicemente spostando il mouse avanti e indietro. Se il video può attenuare la veridicità dei fatti, spettacolarizzando eventi di per sé molto violenti, di fronte ai quali, colui che guarda può sentirsi più deresponsabilizzato e meno coinvolto, lo stesso video non può che amplificare il vissuto della vittima, costringendola a subire il trauma due volte: nel qui ed ora dove si svolge la relazione diretta e nella fissità dell’immagine mediatica infinitamente replicabile ed accessibile a chiunque decida di connettersi.

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Strategie di intervento e prevenzione

Giuseppe Rociola

Questo capitolo intende fornire le coordinate perché non si vengano a creare le condizioni favorenti dinamiche di bullismo – attività che può essere svolta dai soggetti normalmente presenti negli istituti scolastici e con la consulenza di esperti – oppure per intervenire in casi di fenomeno conclamato – caso in cui è indispensabile la presenza di un professionista.

L’esperienza che si è andata accumulando negli ultimi anni, indica l’opportunità di una politica scolastica globale che veda coinvolti studenti, personale docente e dirigente, ovviamente i genitori. Le competenze psicosociali che presenteremo servono ad instaurare nell’organizzazione-scuola un clima improntato alla cooperatività, alla capacità di espressione e di ascolto. Vediamo, per ciascun soggetto, quali sono le competenze richieste.

Studenti
1) Con il supporto dei docenti, si possono attuare metodi cooperativi sia nell’apprendimento che nella verifica. Dopo un certo numero di sessioni di questo tipo, è utile istituire un momento di valutazione finale dell’esperienza vissuta, nel corso del quale comunicare le difficoltà incontrate e i vissuti positivi che, sicuramente, non mancheranno. Questo momento è utile anche per gli insegnanti, allo scopo di tarare le future esperienze.
2) Spesso i docenti sono sensibili alle dinamiche affettive del gruppo-classe e possono rilevare quei tratti di tensione e aggressività che possono portare all’emersione di dinamiche di bullismo o, allo stesso modo, la presenza di studenti problematici che potrebbero in futuro impersonare il ruolo del bullo. In questi casi, è necessario richiedere l’intervento di un esperto che, solitamente, nel corso di alcune sessioni si rivolgerà all'intero gruppo classe, in assenza dei docenti, e implementerà esperienze atte a promuovere modalità di comunicazione basate sull’ascolto, fiducia e supporto reciproco, un atteggiamento teso alla risoluzione e non all’innesco di conflittualità.
3) Qualora ci trovassimo in contesti socioculturali particolarmente critici, sarà indispensabile l’istituzione di un presidio di un professionista che si offra come sportello e, al contempo, in accordo con tutti gli altri componenti dell’istituto svolga un’opera di monitoraggio e di intervento continuativi.

Personale docente e dirigente
1) Anzitutto, è importante l’acquisizione di competenze specifiche per la messa in atto di esperienze di apprendimento e verifica cooperativi. Il training avviene tramite sessioni di role playing, apprendimento di abilità di mediazione, problem solving, comunicazione assertiva.
2) È molto importante che i docenti siano in condizione di avere occhi ed orecchie fini, allo scopo di essere il primo presidio capace di monitorare l’insorgenza di situazioni critiche. A tale scopo i docenti possono acquisire competenze specifiche di ascolto attivo. A prescindere dall’eventualità di fenomeni di bullismo, ciò permetterà di stabilire all’interno della scuola un clima supportivo.
3) Non bisogna trascurare il disagio, lo stress che i docenti devono sopportare in contesti di bullismo: per questo motivo un training di peer support può facilitare la nascita di gruppi di colleghi solidali che possano auto-supportarsi.

Genitori
1) Il primo passo, sempre necessario, è quello di informare i genitori su tutte le attività che svolgeranno i propri figli, facendo in modo che comprendano – e condividano – lo spirito del progetto formativo. In questo contesto, sarà anche descritto il fenomeno del bullismo. Si dovrà tenere un atteggiamento rassicurante perché non si potrà evitare una certa apprensione nei genitori.
2) Nel caso di situazioni critiche in atto, si può prevedere una serie di incontri con esperti, eventualmente con la partecipazione degli insegnanti, allo scopo di fornire supporto.

In qualunque contesto organizzativo, quando vengono messi in atto interventi che comportano una qualche auto-riflessività possono sorgere tensioni e dinamiche di ostacolo. Così il personale docente può trovarsi di fronte a reazioni oppositive da parte sia della classe che di altri colleghi; alcuni studenti o alcune classi possono andare incontro alla manifestazione di conflitti prima sommersi; i timori dei genitori (in particolare di vittime e bulli) possono esibirsi in comportamenti anche di una certa aggressività. A volte è sufficiente che un solo docente interrompa il progetto nella propria classe, perché vi sia un effetto domino sulla motivazione dell’intero corpo docente; in questo contesto i docenti promotori dell’intervento possono diventare i bersagli della frustrazione di tutta l’organizzazione nel suo complesso. Per evitare o risolvere tali situazioni, diventa centrale una supervisione che sia anche spazio di riflessione su di sé, più che sulla classe o sul processo di intervento stesso.

Se vogliamo trovare un principio generale, è che tutti gli adulti di riferimento devono farsi responsabili ed attivarsi, ognuno nel proprio ruolo e compito educativo, al fine di costituirsi come punto di riferimento; il quale, accettato o contrastato che sia, possa comunque fungere per i giovani da incarnazione di autorevolezza.

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