Cari Amici Lions,
come ormai in molte altre circostanze vi ho messo a parte di alcune mie riflessioni,
anche questa volta dovrete sopportarmi e vi prego di scusarmi.
La settimana che andava dal 25 al 31 agosto sono andato con Cira a trascorrere
alcuni giorni in un agriturismo, nei pressi del lago di Bolsena, dal nome
che era tutto un programma: “Agriturismo Buonumore”! A pochi chilometri
da Acquapendente e con molti dintorni interessanti sia dal punto di vista
turistico che gastronomico, ha consentito a Cira e a me di allontanare da
noi la fatica, anche morale, alla quale abbiamo soggiaciuto per circa due
mesi affrontando la vicenda di Gerano.
Ma non è su questo che voglio intrattenervi.
Il giorno stesso in cui siamo arrivati, nel metterci a tavola per il pranzo,
ci siamo trovati a stretto contatto di gomito con un gruppo di almeno sedici-diciassette
persone, otto delle quali portatrici di handicap più o meno gravi,
assistite dalla ASL RM4 a mezzo di una cooperativa sociale. Vi erano persone,
prevalentemente giovani, completamente raggomitolate dentro ad una carrozzina;
altre che per camminare dovevano essere sostenute e insieme guidate, perché
anche non vedenti; altre ancora dall’aspetto quasi normale, ma che calzavano
un caschetto protettivo in quanto, evidentemente, soggette a crisi di natura
epilettica che avrebbero potuto danneggiarle.
Mi fermo qui, anche perché tutti conosciamo i vari aspetti con i quali
si presentano gli handicap che possono aggredire una persona.
Posso affermare in totale verità - e dovete credermi, perché
conoscete bene sia Cira che me - che la circostanza non ci ha assolutamente
creato né disagio né curiosità: la nostra vita si dipana
anche attraversando momenti del genere, perché ad essa loro appartengono
e ci accompagnano e ci aiutano a capire quanto dolore ci circonda e del quale,
molte volte, ci rifiutiamo di prendere atto.
Ma quel che ha destato il nostro interesse e la curiosità è
stato l’atteggiamento degli accompagnatori nei confronti delle persone
affidate alle loro cure. Premetto che, tranne una signora di circa cinquant’anni
che, evidentemente, era la responsabile del gruppo, tutti gli altri erano
giovanissimi, tra i venti e i venticinque anni, ragazze e ragazzi. Tra gli
altri un ragazzo nero, con un fisico che non aveva nulla da invidiare a quegli
atleti che si erano esibiti nei Giochi olimpici appena conclusi!
La professionalità mostrata nelle varie situazioni di crisi cui andavano
spesso soggette le persone assistite era tale da lasciare stupiti: precisi
e tempestivi, appropriati e veloci, gli interventi degli assistenti si sono
sempre svolti, nella sala che accoglieva durante i pasti fino a cento persone,
con una tale discrezione da passare quasi inosservati. Comunque senza che
mai fossero esternate insofferenze da parte degli altri ospiti.
Una ragazza, raggomitolata nella sua carrozzina e priva di qualsiasi mobilità
degli arti, veniva imboccata da un ragazzo, il quale accompagnava i suoi gesti
con carezze e baci sul viso dell’assistita per invogliarla a mangiare.
Un’altra ragazza, ogni qualvolta si siedeva a tavola, si sfilava le
scarpe ed era un problema costringerla a reinfilarle; una volta una assistente
ha passato buona parte del pranzo china sotto la tavola nel tentativo di recuperare
le scarpe che, sistematicamente, venivano allontanate con violenza. Quando
un ragazzo venne colto da una crisi isterica con urla e movimenti pericolosi
per sé e per gli altri, non potete immaginare le cure delle quali divenne
oggetto: carezze e abbracci affettuosi accompagnati da frasi dolcissime modulate
con nenie che probabilmente neppure una madre sarebbe stata in grado di inventare
e cantare.
Ma i momenti più belli erano quelli in cui, nel corso della mattinata
o nel pomeriggio, tutto il gruppo al completo si radunava sotto la chioma
di pini secolari e si intratteneva con giochi e canti, nella calma più
completa, in piena e totale serenità. Evidentemente il canto deve avere
un potere calmante e quelle persone così sfortunate recuperavano moltissimo
della loro naturalità così gravemente offesa, tanto da apparire
non dico normali, ma certamente più lontane dalla loro quotidiana condizione
di malati.
Tutto quanto vi ho narrato, e del quale Cira ed io siamo stati testimoni per
molti giorni, ha suscitato in noi non soltanto grande ammirazione per l’abnegazione
posta in atto dagli assistenti, ma anche grandissima commozione nel vedere
quale legame di affetto si era stabilito tra persone bisognose di ogni genere
di aiuto, anche il più intimo, e persone che stavano dedicando tempo,
intelletto e amore a chi di questo aiuto necessitava.
La nostra commozione ha raggiunto il punto più alto la sera in cui,
dopo la cena, due artisti, con il solo aiuto di chitarre, hanno riproposto
all’ascolto dei presenti tutta una serie di canzoni di Battisti, Venditti,
De Gregori e altri cantautori di quella generazione, accogliendo anche richieste
da parte del pubblico. Ebbene: un assistito, di circa una una quarantina di
anni, con in testa un caschetto da ciclista e con difficoltà di parola,
è rimasto in piedi fino a quando non è stata accolta la sua
richiesta di sentire la sua canzone preferita. E quando il motivo ha iniziato
ad uscire dagli altoparlanti, è rimasto in piedi e ha preso ad accompagnare
il motivo ripetendone le stesse parole, ma con un atteggiamento così
ispirato e commosso che mi ha fatto pensare che nella sua mente qualcosa si
stava risvegliando e lo stava riconducendo indietro a rivivere attimi già
vissuti. La stessa sensazione debbono aver provato anche due ragazze assistenti:
si sono avvicinate alla persona con il caschetto giallo, gli hanno circondato
con le braccia la vita e le spalle e il terzetto, così abbracciato,
ha cominciato a dondolarsi come si usa fare tra il pubblico nei concerti di
canzoni.
Ho sentito salirmi alla gola e al naso un groppo pieno di lacrime. Ho guardato
in viso Cira: a lei le lacrime erano già arrivate agli angoli della
bocca.
Più tardi, seduti sulla veranda davanti al nostro alloggio, nel buio
più completo ed essendo passata la commozione che ci aveva scosso,
Cira ed io abbiamo cominciato a riflettere a voce alta sull’esperienza
che stavamo vivendo e siamo arrivati a parlare di volontariato, anche del
nostro volontariato di Club e ci siamo chiesti più di una volta se
veramente lo stiamo applicando. Certamente quei ragazzi che stavano assistendo
persone variamente non abili avrebbero ricevuto una mercede. Ma non era quello
il problema: a nessuno di noi viene chiesto esplicitamente di affrontare direttamente
e in prima persona situazioni siffatte. Comunque, che male ci sarebbe? La
domanda sorge quando assistiamo (e leggiamo sulla nostra stampa) ad atteggiamenti
che creano in me - e in molti altri ancora - stupore e sconcerto per la supponenza
e il sussiego con cui si affrontano eternamente, nelle assise più alte
e da personaggi noti da sempre, argomenti vacui e privi di qualsiasi concretezza,
rivolti unicamente a perpetuare una autoreferenzialità dura a morire.
Dove troviamo un afflato di volontariato in simili comportamenti?
E ho ricordato quello che compare nel libro che celebra il quarantennale del
Club, laddove si legge che se vogliamo essere concretamente volontari, occorre
volare a vista, per avere “…una percezione più netta e
precisa….della vita quotidiana …accanto a noi, palpitante di gioie
e di dolori, di colori e di ombre, di lamenti, di odori”. Così
come Cira ed io la stavamo vivendo in un agriturismo dal nome invitante: “Buonumore”!
Paura di sporcarsi le mani? Perché mai? Ma il lionismo di Melvin Jones
non era proprio questo? Anche se oggi lo si ricorda quasi con supponente distacco
qualificandolo assistenziale e caritativo, ancora “…oggi troppo
spesso prediletto da molti Lions…., umanitario, certamente più
semplice e meno faticoso ma che non dà motivazioni e gratificazioni
sufficienti”. Parole pronunciate in un recente Forum da un nostro Past
Governatore Distrettuale, al quale vorrei chiedere in quale altra iniziativa
“non umanitaria”, da lui o da altri assunta finora nel corso della
sua non breve vita lionistica, abbia trovato motivazioni e gratificazioni,
escluso forse l’anno del suo governatorato.
Cari Amici, rileggiamo insieme alcune righe di quel libro che tanto ci ha
affaticato, ma che alla fine ci ha riempito di gioia. “Herman Hesse
introduce nella mente di Narciso il dubbio che forse era più difficile,
più doloroso ma più nobile camminare per i boschi e le strade
maestre, soffrire il sole e la pioggia, la fame e la miseria, come è
accaduto a Boccadoro, anziché, come ha fatto lui, condurre una vita
regolata dalla campana che chiama alla preghiera e pensando che l’uomo
è stato creato per studiare Aristotele e Tommaso d’Aquino”.
Vi saluto con affetto,
Enzo Maggi
La stessa lettera, come è stata pubblicata a pag.19 dalla
Rivista "Lionismo" del luglio - agosto 2009,
con in calce il commento del Direttore Lions Osvaldo de Tullio.