William Blackwhite, facoltoso mercante inglese di stoffe
pregiate e molto conosciuto per la sua grande fede religiosa, era rimasto
profondamente colpito dalla lettura dello scarno ma esatto documento con il
quale Segerico, arcivescovo di Canterbury, nel 990, di ritorno da Roma, aveva
elencato le 79 tappe che avevano punteggiato il lungo percorso dalla sua città
alla Città Eterna.
Erano trascorsi più di cinque secoli da quell’illustre pellegrinaggio
e già molti altri fedeli si erano avventurati e, spinti da tenace fede,
ancora si avventuravano sul percorso lungo migliaia di chilometri, denso di
pericoli di ogni genere, sia da quelli rappresentati dalla natura sconosciuta
e ostile che da briganti e predoni, che erano i veri e propri padroni di strade
e sentieri insicuri. Ma la fede che lo animava e, ammettiamolo, la speranza
di aprire nuovi proficui canali al suo mestiere, spinsero William Blackwhite
ad intraprendere un’avventura dalla quale trarre ristoro sia per l’anima
che per la borsa.
Studiò bene il tragitto, chiese informazioni e consigli ad altre persone
che avevano in passato praticato il pellegrinaggio lungo una strada che, per
il fatto di attraversare da nord a sud tutta la Francia, era stata denominata
“La Via Francigena” e ai primi giorni del 1560 si mise in viaggio
e qualche tempo dopo pose piede sul continente, e più precisamente
a Calais, città che soltanto da due anni era tornata francese, dopo
due secoli di dominio inglese.
Era la prima tappa sul suolo europeo, la prima di un lungo tragitto che l’avrebbe
portato, alle porte di Roma, a soggiornare, prima dell’ultimo balzo,
in un castello-casale del XII secolo sulla Via Cassia e che era noto ai pellegrini
per aver dato il nome a tutta la località,”La Castelluccia”,
ma anche per la sua ospitalità, povera ma confortevole.
Ma al buon Blackwhite accadde uno strano e, per certi versi, incredibile fenomeno:
da quel momento in poi, cioè dal suo sbarco a Calais, il tempo iniziò
a scorrere per lui in maniera talmente veloce che, in poche settimane, si
trovò a vivere, pur restando sempre se stesso, in anni e secoli sempre
più in avanti e divenne spettatore e, a sua insaputa, anche protagonista
di avvenimenti che stavano delineando un nuovo profilo all’Europa, e
non soltanto ad essa: la Riforma del monaco agostiniano Lutero, la Guerra
dei Trent’anni, l’inizio della decadenza della Repubblica veneziana,
il consolidarsi dell’egemonia turca sul Mediterraneo, il lento ma continuo
espandersi, tra alterne vicende, del Papato e del Piemonte.
Mentre attraversava la Francia (ed era ormai il XVIII secolo), era stato sfiorato
dal fatidico 14 luglio 1789 e, di gran carriera, si era precipitato verso
Besancon, tornata francese poco più di un secolo prima. E mentre ancora
si stava chiedendo come diavolo ci fossero capitati nel 1649 , lì a
Besancon, gli spagnoli, si trovò ad attraversare le Alpi al Passo del
Gran San Bernardo. Fece il suo ingresso ad Aosta proprio nell’anno in
cui la città entrò a far parte del Regno di Sardegna (1794),
precedendo di appena due anni la campagna d’Italia di Napoleone.
A questo punto qualche lettore si potrebbe porre la domanda: ma questo tizio,
che se ne va in giro per l’Europa vestito secondo la moda dei tempi
di Shakespeare, come fa a passare inosservato? Si fa presto a rispondere:
con tutti i guai che a quel tempo imperversavano, vuoi che la gente si potesse
interessare di un poveraccio (almeno dall’aspetto) che se ne andava
in giro badando soltanto ai casi suoi?
Comunque proseguiva con il suo viaggio in Italia. E continuava, facendo molta
attenzione a non lasciarsi coinvolgere da tutto quello che stava accadendo
in quel benedetto “Bel Paese”: la Repubblica Cisalpina, la caduta
di Venezia e quella del regime napoleonico, la restaurazione dei vari governanti,
compreso il Papa, deposti dal Bonaparte, i moti rivoluzionari del 1830, la
guerra contro l’Austria del 1848, Mazzini, Garibaldi, la spedizione
dei Mille, Teano, la Breccia di Porta Pia, l’Unità d’Italia.
E via di questo passo, fino alla Grande Guerra del 1915-18 e all’avvento
del Fascismo, alla seconda Guerra mondiale, alla caduta della Monarchia e,
infine, alla instaurazione della Repubblica. Imperterrito, il Blackwhite continuava
nel suo viaggio verso Roma, facendo tappa a Pavia, a Parma, a Pontremoli,
a Lucca, a S.Gimignano, a Siena, a Bolsena, a Sutri.
E proprio mentre si stava riposando in questa ultima amena località
(si era ormai, in quel momento, al primo decennio del 2000 ), venne a sapere
che nell’aprile del 1932 il Capo del Governo Benito Mussolini aveva
compiuto una visita alla tenuta “Castelluccia alla Storta”, per
assegnare ufficialmente le abitazioni ad alcune famiglie coloniche che si
andavano ad insediare nella tenuta. Quando si dice da dove parte il buon esempio!
Spinto dalla curiosità e ansioso di poter finalmente terminare il lungo
e travagliato viaggio e di riposarsi alla dolce frescura dell’antico
castello per poi incamminarsi lungo l’antica Via Triumphalis che l’avrebbe
condotto fino alla porta santa della basilica di San Pietro, l’ormai
pluricentenario pellegrino inglese riprese il cammino e, poco dopo, si trovò
ad entrare in un comprensorio pieno di moderne costruzioni dalla diversa fattura:
strisce di palazzine lunghe centinaia di metri, tutte uguali, anche nel colore
ocra, con il loro ingresso riservato e separato dagli altri da un sottile
muretto; alcuni piccoli edifici di appena due-tre piani; e poi alcune ville
isolate, delle quali di scorgeva a malapena il tetto che si elevava al di
sopra di severe e robuste mura, seminascosto da vegetazione alta e rigogliosa.
Mentre un po’ sconcertato Blackwhite si stava chiedendo dove fosse andato
a finire tutto quel verde di cui tanto aveva sentito raccontare, vide un tizio
che con aria alquanto rassegnata portava al guinzaglio un cane bello grasso
che, alla ricerca del posticino preferito, annusando costeggiava un muro oltre
il quale si udivano provenire voci e suoni che stavano a testimoniare la presenza
di parecchie persone.
L’inglese, con deferenza e alquanto vergognoso per il suo ormai da molto
tempo sorpassato abbigliamento, si rivolse all’annoiato uomo per chiedergli
notizie sia del verde non trovato che di quanto stesse accadendo nella villa
della quale poteva scorgere, oltre il muro, il dolce declinare di un tetto
signorile e le cime altissime di piante secolari. Con fare scocciato, l’accompagnatore
del cane rispose che del verde lui non sapeva un bel niente e, per quanto
riguardava cosa stesse accadendo oltre il muro, disse di aver saputo in giro
che c’era un raduno di leoni. “E più non so’”.
Blackwhite restò sconcertato dalla risposta avuta: non sapeva molto
di leoni e di altre bestie feroci; ma gli rimaneva un po’ difficile
accettare la notizia che dei leoni potessero parlare e ridere. E poi ascoltare
musica! Forse siamo vicini ad un circo equestre? Cosicché, visto che
il cancello d’entrata della villa era rimasto leggermente aperto, con
fare furtivo e cercando riparo nei rigogliosi cespugli disseminati un po’
dappertutto, s’intrufolò all’interno e poté scorgere,
raccolti su di un bel prato all’inglese (sic!), distinti signori e belle
signore che amabilmente conversavano tra loro, si scambiavano complimenti
affettuosi, accompagnati da sincere risate, in un vorticoso incrociarsi di
incontri con altre persone che affollavano gazebo, panchine e sdraie.
Al riparo di enormi ombrelloni, una lunga tavola mostrava una sequela senza
fine di pietanze prelibatissime, alla cui vista il pellegrino, che da tempo
immemorabile si cibava ormai di solo pane e qualche cipolla, sentì
salirgli alle labbra non un’acquolina, ma un torrente di saliva che,
sgorgando, andò a colargli lungo la incolta barba e il sudicio corpetto.
A pochissima distanza, un giovin signore pigiava le dita su una piccola colorata
spinetta, dalla quale scaturivano dolci melodie che non riuscivano, però,
a sovrastare il lieto cicaleccio che regnava sovrano. Ma il giovin signore
continuava nel suo impegno con fare languido e trasognato. Sicuramente il
languore gli veniva procurato dalla vicinanza di tutto quel ben di dio esposto
e a lui non accessibile, almeno per ora.
L’intrusione di Blackwhite durò molto a lungo, ma di leoni nessuna
traccia. Le diverse decine di partecipanti alla riunione presero d’assalto
la tavola delle cibarie: ma il tutto avvenne con stile e signorilità,
anche se con entusiasmo e ad una velocità incredibile, vista l’età
media dei convitati. Una signora e un signore, probabilmente gli anfitrioni
padroni di casa, si affannavano a destra e a manca affinché ognuno
si sentisse a proprio agio e non mancassero posate, bicchieri, acqua e vino
a volontà, dando acconce istruzioni al personale di servizio per aggiungere
tavoli e sedie, laddove se ne avvisasse la carenza. Poi, satolli e soddisfatti,
giacquero mollemente abbandonati su panchine e sdraie; e proprio nel momento
in cui sarebbe stata gradita qualche nenia accattivante, la musica taceva,
perché il giovin signore si era avvicinato alla residuata tavola e
si stava rifocillando, ponendo fine al suo languore.
Improvvisamente la scena tornò a rianimarsi: si stavano ricordando,
con l’aiuto di una piccola scatola che creava immagini su di un lenzuolo,
alcuni momenti di una recente riunione, nel corso della quale uno dei presenti,
un tal Mario, aveva ottenuto un prestigioso incarico (1). Da tutti i presenti
si levò una serie di applausi e complimenti unanimi e convinti verso
l’illustre personaggio il quale, commosso, ringraziò e promise
cose importanti. Fu poi la volta di un altro signore, Giancarlo, del quale
furono ricordate notevoli imprese, che gli erano valse il conferimento di
una medaglia d’oro (2). A questo punto, colui che sembrava essere il
padrone di casa aggiunse, anche a nome della gentile e ospitalissima consorte,
i suoi personali auguri, accompagnati dall’esortazione a tutti a trarre
esempio dai fatti ricordati per una sempre maggiore e fattiva presenza agli
impegni dell’associazione che, a quanto veniva illustrando, riguardavano
sia gli individui che la società nella quale essi vivevano, anche con
aiuti concreti. Unanime fu il consenso e l’approvazione da parte di
tutti, anche dal Blackwhite il quale, viste le condizioni in cui si trovava,
provò l’impulso di balzare fuori dai cespugli per offrirsi, pronto
ad essere aiutato, in tutti i sensi. Ma il timore di arrecare, con il suo
aspetto e abbigliamento, stupore e sconcerto in tutti gli astanti e, forse,
vedersi aizzato addosso un paio di servitori in giacca bianca, lo frenò.
Di soppiatto, così come era entrato, scivolò fuori dalla villa
e riprese il cammino verso la Via Triumphalis, facendo attenzione a non farsi
arrotare da qualcuna delle centinaia di carrozze senza cavalli e puzzolenti
che lo sfioravano da tutti i lati.
Mentre già pensava al viaggio di ritorno, rifletteva sulla circostanza
che, se questi erano i leoni, i veri leoni e non quelli dei quali si favoleggiava
come mangiatori di cristiani e re della foresta, forse non sarebbe stata cosa
sbagliata, una volta rientrato nella natìa Canterbury, tentare di mettere
in piedi un gruppo di persone che, in qualche modo, ricordasse quello di cui
era stato testimone in quella località denominata “La Castelluccia”.
Ma questa è tutta un’altra storia. (Enzo Maggi)
Roma, 26 maggio 2010