PRESIDENTe
ing. raffaele Mele
E’ usanza del nostro Club documentare gli avvenimenti
di ogni annata con un articolo di cronaca che richiami i punti salienti dell’incontro,
citandone i protagonisti, gli ospiti, le motivazioni e le finalità.
Tale compito è affidato all’“Addetto Stampa”, carica
annuale all’interno del Consiglio Direttivo del Club; tanti sono i soci
che nei 45 anni di attività del Club, di anno in anno, si sono avvicendati
in tale responsabilità ed i loro scritti hanno trovato ospitalità,
oltre che nel sito web del Club, anche nella pubblicazione periodica del nostro
Distretto, la rivista “Lionismo”.
Ma per il nostro amico Enzo Maggi, socio dal 1978, che per la sua esperienza
e i suoi consigli è sempre stato un importante punto di riferimento
per il Club Roma Aurelium, la semplice cronaca non è mai stata sufficiente.
Cultore di musica classica e appassionato lettore di saggistica, letteratura
e storia, quando ha ricoperto la carica di “Addetto Stampa”, l’avvenimento
(sia esso un incontro conviviale, una gita, un convegno o altro) e la sua
finalità gli hanno solo fornito lo spunto per richiami e commenti culturali
ad ampio spettro, che hanno arricchito il semplice contenuto di cronaca, dando
vita ad un articolo più completo, utile alla conoscenza di particolari
anche inediti e di piacevole lettura.
Grazie a questa capacità non comune, il suo contributo è stato
determinante per la pubblicazione del “Diario 2004-2005”, una
sorta di compendio dell’attività svolta in una delle annate del
nostro Club e per la stesura de “Il Libro del Quarantennale”,
pubblicato nell’anno 2005, che ripercorre i 40 anni di attività
del Club dalla sua fondazione. In quest’ultimo, oltre al commento di
alcune tra le realizzazioni più importanti portate a termine dal Club,
sono stati inseriti alcuni suoi articoli riguardanti, nello specifico, gli
scopi e l’etica lionistica, ma anche riflessioni di carattere sociale
e generale.
Questa pubblicazione, articolata in due parti, procede su questa linea, raccogliendo
i suoi scritti più recenti.
La prima parte riporta gli articoli a commento dei singoli avvenimenti dell’annata
2009-2010; in ognuno di essi si è avvalso non solo delle sue conoscenze,
tra queste “Domenica insieme a S. Clemente” e “Il Maestro
Lanzillotta”, ma anche della sua inventiva, come nell’articolo
“La Castelluccia” scritto in occasione della conviviale del 23
maggio 2010, a casa del Presidente del Club, nel quale immagina il viaggio,
durato ben 450 anni, di un fantasioso signor Blackwhite da Canterbury a Roma
percorrendo la Via Francigena (Via in questo periodo oggetto di particolare
attenzione da parte dei mass media). Come il lettore potrà constatare,
la cronaca di questi incontri occupa solo pochissime righe.
La seconda parte riporta, invece, alcuni dei suoi scritti, lettere o spunti
di riflessione, apparsi anche sulle riviste sociali “Lionismo”
e “The Lion”, su argomenti vari o problemi lionistici e non, di
attualità nel momento in cui sono stati prodotti ed in tale sequenza
cronologica sono elencati.
Anche in essi traspare la vocazione indagatrice del nostro amico volta ad
analizzare argomenti richiamati alla mente da semplice osservazione della
vita comune, vissuta in chiave fortemente emotiva (Una riflessione...d’estate,
La Pastorale) e in chiave ironica (Riflessioni…ospedaliere) o suggerite
da temi di attualità (Noi e l’immigrazione, Culture) o da considerazioni
“mattutine” (Figaro).
La raccolta, come una rassegna di piccoli quadri ad olio, può regalare
al lettore momenti di piacevoli sensazioni o di meditazione profonda.
Buona lettura!
Dino Manzaro
Gli incontri conviviali del nostro Club sono iniziati il
23 ottobre con una serata dedicata alla Bulgaria, degnamente rappresentata
da S.E. l’Ambasciatore presso la Repubblica Italiana Atanas Mladenov,
accompagnato dalla gentile consorte.
Gli interventi del Presidente Mele e del diplomatico, signorilmente presentati
dal cerimoniere Dori, sono stati preceduti dall’esecuzione al piano
di alcuni brani musicali di Mozart, Scarlatti e Chopin, magistralmente eseguiti
dal pianista bulgaro maestro Alexander Hintchev. Il Presidente Mele, aprendo
ufficialmente l’annata conviviale dell’Aurelium, ha inteso sottolineare
come l’incontro della serata perfettamente si inquadrava nelle finalità
della nostra associazione, che ha fatto dell’amicizia tra i singoli,
e in quella tra i popoli che ne deriva come logico corollario, lo scopo principale
che ne motiva l’esistenza. Anche se le vicende storiche, vicine e lontane
nel tempo, non sempre hanno agevolato i rapporti tra i due Paesi, oggi possiamo
prendere atto con soddisfazione che, avendo essi trovato nell’Europa
una casa comune, il futuro apre nuove e proficue prospettive di collaborazione.
L’Ambasciatore Mladenov, nel suo intervento, ha posto l’accento
sul contributo italiano all’ingresso in Europa della Bulgaria, con la
quale l’Italia intrattiene rapporti sia diplomatici che economici da
almeno 130 anni. In campo economico, l’Italia è attualmente tra
i primi tre partners del Paese balcanico. L’oratore è poi passato
ad illustrare i vari aspetti del Paese che rappresenta e, attraverso una dettagliata
dissertazione, ne ha affrontato i vari aspetti, da quello storico a quello
economico, da quello politico a quello culturale, non omettendo di ricordare
che il popolamento della Bulgaria è avvenuto storicamente attraverso
una serie di conflitti e migrazioni di massa e che, quindi, oggi sia abitata
da oltre l’85% da bulgari, slavi di probabile stirpe mongola, e da una
discreta colonia turca e di altre etnie.
Uno spazio non breve l’oratore, richiamando un concetto espresso dal
nostro Presidente nel saluto introduttivo, ha dedicato al nostro Club, quando
ha voluto sottolineare l’atmosfera di cordialità ed amicizia
che ha accolto lui e le altre persone al suo seguito e che ha sentito aleggiare
per l’intera serata tra tutti i presenti: segno, questo, che il consesso
che lo vedeva ospite poteva vantare un grande tesoro, e cioè l’amicizia
lionistica che potrebbe anche far ben sperare in un seguito sul piano della
collaborazione tra le due comunità.
Le parole del diplomatico, seguite con grande interesse da tutti presenti,
hanno preceduto la proiezione di un DVD che illustrava i vari aspetti della
sua nazione, ambientali, architettonici, culturali, religiosi e della vita
quotidiana; dischetto che è stato poi lasciato in omaggio a tutti i
presenti e sul quale mi soffermerò in seguito.
Dopo la cena e prima della chiusura della serata, affidata al Presidente di
circoscrizione avv.Vecchione, il maestro Hintchev ha eseguito, applauditissimo,
brani di Chopin, Ravel, Prokofief e Gershwin. Il tradizionale tocco della
Campana ha posto fine ad un incontro conviviale intenso e che ha suscitato
ampio e unanime consenso.
Prima di accingermi a scrivere la cronaca della serata conviviale, ho voluto
guardare con più attenzione il DVD lasciatoci in omaggio dall’ambasciatore
Mladenov e, una volta terminata la proiezione, avrei voluto avere la possibilità
di poterlo ringraziare ancora una volta e con maggior calore, perché
le immagini che scorrevano davanti ai miei occhi suscitavano in me forti sensazioni
legate a ricordi di tempi che, almeno per quanto mi riguarda, mi parlavano
di luoghi, di persone, di oggetti e sui quali la patina del tempo delittuosamente
si deposita, fino a nasconderli del tutto. Perché è ben vero
che le immagini illustravano un altro paese, un’altra civiltà,
un altro modo di vivere e di relazionarsi: ma come non trovare analogie tra
le stradine di paesini, talvolta coperti di neve, con quelle che possiamo
ammirare nel nostro Cadore; tra lo sguardo quasi allucinato del Cristo dipinto
nella chiesa di San Nicola a Dryanov e quello di altre immagini del Redentore
esposte in molte chiese italiane di origine alto medioevo; i motivi decorativi
della chiesa della Natività a Rila con le fasce bicolori del Duomo
di Orvieto e di quello di Amalfi; gli strepitosi fulgori dei colori del bosco
in autunno, dal giallo canarino dei castagni al rosso fiamma dei larici, che
ci ricordano le colline toscane; i piccoli laghi di montagna, così
simili a quello di Braies nel nostro Alto Adige, che sembrano brillanti lapislazzuli
posati sul seno di una bella donna; e infine Melnik le cui case sembrano dei
bambini alle cui spalle si ergono protettive, come affettuosi genitori, severe
e ripide pareti montuose. E poi i costumi ricchi di colori e di decori che
le popolazioni, fedeli a secolari tradizioni, ancora indossano in occasioni
di festose ricorrenze. Proprio come accade presso le nostre genti, dalla Sardegna
alla Basilicata, dalla Sicilia alla Val d’Aosta, con somiglianze che
lasciano pensare che gli usi e le tradizioni, ignorando barriere e confini
politici e camminando affidati unicamente al desiderio di uomini umili e operosi
di allacciare relazioni ed amicizie, hanno potuto percorrere migliaia di chilometri
e lasciando dietro di sé tracce indelebili.
E ben si intona a quanto appena affermato - e anche allo spirito con il quale
si è svolta la serata - la frase che leggo su uno dei depliant che
sono stati distribuiti fra i presenti alla conviviale: “Open doors to
open hearts” e che mi sembra di dover tradurre così: “Apri
le porte per aprire i cuori”.
Roma, 23 ottobre 2009
Grand Hotel “Parco dei Principi”
La riunione del Consiglio direttivo dell’Aurelium,
che si è tenuta la sera del 27 novembre u.s. alla presenza del Governatore
distrettuale Dott. Giampiero Peddis, ha visto la partecipazione di quasi tutti
i suoi componenti e, come è ormai costume del nostro Club, anche quella
di altri Soci tanto da sembrare una vera e propria assemblea, al punto di
far esclamare all’illustre ospite che raramente gli era accaduto di
presenziare ad una seduta dell’organo collegiale così affollata.
E ha pregato il nostro Cerimoniere Dori di documentare l’avvenimento
con una foto sulla sua personale macchina digitale.Il Presidente Mele, dopo
i saluti di rito e la presentazione dei componenti il Consiglio direttivo
partecipanti alla seduta, ha illustrato con dovizia di particolari l’attuale
situazione del Club Aurelium, i risultati conseguiti recentemente in materia
di service, il programma proposto e approvato, con tutti gli eventuali aggiustamenti
in corso d’opera, ma comunque sempre finalizzato al raggiungimento dei
migliori risultati possibili. Il Governatore Peddis ha preso atto con soddisfazione
di quanto esposto, dando ampio e positivo riconoscimento alle iniziative svolte
e a quelle ancora in programma sottolineando, tra l’altro, l’utilità
della presenza femminile nello svolgimento delle attività del Club,
così come evidenziato dal Presidente Mele nella sua esposizione. Il
Governatore non è stato avaro di elogi nei confronti di tutto il Club
e ha esortato il Presidente Mele, e con lui il Club intero, a proseguire nel
suo proficuo e interessante lavoro.
La successiva conviviale, apertasi con il saluto del Cerimoniere Dori a tutti
i presenti, è proseguita con celebrazione dell’anniversario della
Charter Night del Club che, secondo una consolidata tradizione più
che decennale, si tiene in contemporanea alla visita del Governatore.
Quest’anno l’avvenimento è stato ricordato dall’immediato
Past Presidente Giuseppe Gugliuzza il quale, in maniera sintetica ma con lodevole
chiarezza, ha ripercorso i quarantatre anni di vita dell’Aurelium attraverso
le tappe più significative che hanno caratterizzato l’impegno
profuso dal nostro sodalizio sia a favore della comunità più
prossima, sia a livello nazionale che internazionale, con iniziative autonome
o in adesione a quelle attivate da istanze distrettuali, multidistrettuali
e internazionali. Le parole dell’oratore, nelle quali si sentiva vibrare
il sentimento di sincera partecipazione nei confronti di quanto andava evocando
e di fiero orgoglio di appartenenza ad una associazione, ma più ancora
ad un Club, che ha fatto della solidarietà verso il prossimo che soffre
il motivo dell’associazionismo cui partecipa, sono state ascoltate dai
presenti con estrema attenzione e da tutti apprezzate.
Il Presidente Mele, nel suo successivo intervento, preceduto da quello del
Presidente di Circoscrizione avv. Vecchione, ha ripreso e ampliato i concetti
esposti in precedenza al Consiglio direttivo e ha voluto insistere nel suo
desiderio di consolidare e ampliare, attraverso il maggior numero possibile
di incontri - conviviali e non - i vincoli di amicizia già presenti
nel nostro Club, convinto come è che ciò si potrà riverberare
positivamente sul senso di solidarietà che deve caratterizzare il nostro
impegno nel sociale. Manifestazioni semplici ma coinvolgenti, rifuggendo da
impegni troppo onerosi sul piano concettuale, facilitando invece quello spirito
di coesione indispensabile
per conseguire la vera operosità: questo è quanto si propone
di ottenere chiamando a raccolta i Soci dell’Aurelium attorno al programma
proposto. Il Governatore Peddis, prendendo la parola e dopo aver salutato
tutti coloro che nel Club Aurelium hanno ricoperto, e ricoprono, cariche e
incarichi distrettuali di prestigio, ha tenuto a sottolineare due concetti:
la passione che deve animare ogni Lion nel partecipare alla vita del Club
e del Lionismo in generale e non tralasciare mai di ricordare i suggerimenti
che ci vengono dal passato, per poter meglio agire nel presente e nel futuro.
Per avvalorare questa esortazione, è ricorso ad una originale lettura
della figura del leone dai due profili che campeggia nel nostro stemma, individuando
in uno un profilo raffigurante il passato, nell’altro il futuro. Un
calda esortazione ha voluto rivolgere in materia di solidarietà, che
non deve essere passiva al punto di identificarsi nell’assistenzialismo,
bensì attiva, intesa come partecipazione alle problematiche di popolazioni
indigenti mediante interventi che agiscano, oltre che sull’esistente,
sulle cause dei disagi nei quali versano.
Mentre il Governatore Peddis illustrava questi concetti, la memoria di chi
scrive è tornata indietro di ben diciannove anni, e precisamente alla
sera del 1° giugno 1990, quando il Club Aurelium, nel corso di una serata
dedicata a problematiche sociali, affrontava anche il tema dell’immigrazione
e suggeriva proprio quanto oggi la massima autorità eletta del Distretto
stava raccomandando. Anche di questo il prestigioso Club Aurelium poteva menar
vanto: un visione
anticipata di problematiche e suggerimento di soluzioni. Il rituale scambio
dei guidoncini, ampiamente illustrati dal Governatore Peddis e dal Presidente
Mele, la consegna di ricordi e di omaggi floreali hanno chiuso degnamente
una serata elegante e costruttiva.
Roma, 27 novembre 2009
Grand Hotel “Parco dei Principi”
Il tradizionale appuntamento di fine anno non poteva, come
negli anni precedenti, tradire le attese e fornire al Presidente e al suo
staff il piacere di vedere premiati i loro sforzi rivolti ad organizzare una
serata piacevole e coinvolgente. Ed infatti la risposta degli amici del Club
è stata, come sempre, corale: basti pensare che i Soci presenti sono
stati quasi quaranta e i partecipanti hanno fornito, occupando i tavoli elegantemente
preparati, un magnifico colpo d’occhio di una grande sala interamente
riempita.
La garbata e puntuale apertura del Cerimoniere Dori ha suscitato anche attimi
di emozione, quando ha voluto salutare Giulio Bernardini, un grande Socio
che da molto tempo ha cessato, per motivi di salute, di frequentare il Club.
Il ricordo di chi lo ha conosciuto è sempre vivo, per la sua genialità
e generosità, attivo come pochi nel porsi al servizio delle finalità
della nostra associazione. Basti accennare ad un solo nome: Fotoemoteca. Sento
il dovere di ringraziare Dori per avermi dato occasione di ricordare con affetto
colui che fu il mio padrino nel lontano 1979.
Il Presidente Mele apre ufficialmente la serata e, nel ringraziare tutti i
presenti, desidera richiamarne l’attenzione sul programma delle attività
che ha proposto per la corrente annata e che viene distribuito ancora una
volta. Illustrate le modalità con le quali l’incontro si svolgerà,
lascia il microfono alla cara Colomba Calcagni Antoniotti la quale, nel solco
di una tradizione ormai decennale, porge all’attentissimo uditorio la
sua poesia ispirata, come tutte le precedenti, dai sentimenti di amore che
suscita il Santo Natale.
Il piatto forte dell’incontro è costituito dall’esibizione
del Coro polifonico “Roma Cantat”, un complesso di venti persone
con voci dal basso al soprano che interpreta, con rara perizia e con affettuosa
adesione da parte dell’uditorio, un repertorio che va dal canto monodico
medievale alla polifonia sacra e profana rinascimentale, dalla musica barocca
a quella classica e a quella contemporanea. Il concerto, applauditissimo in
tutte e due le parti con le quali si è offerto al pubblico, era diretto
dal M.o Ermanno Testi che aveva come collaboratrice alla direzione artistica
la M.a Ida Marini, due persone delle quali si scorgeva, nel loro alternarsi
al podio, nella gestualità che accompagnava la reciproca intesa, nell’intensità
con la quale partecipavano all’esibizione, una dedizione completa a
quella che a buona ragione può definirsi la regina delle arti: la Musica.
Dedizione che ha suscitato in molti dei presenti un sentimento di partecipata
tenerezza nei confronti di due persone che mostravano ammirevole modestia,
ma grande professionalità. L’attesa lotteria, della quale viene
apprezzata sia la generosità dei premi che la snellezza con la quale
viene condotta e conclusa, chiude la serata che si conclude con il saluto
affettuoso e riconoscente del Presidente Mele, giustamente soddisfatto per
aver realizzato un piacevole incontro che va ad aggiungersi, come una ulteriore
perla di una preziosa collana, a tutti quelli che i past Presidenti hanno
attuato in precedenza e dei quali, specialmente in chi ha qualche decennio
di militanza nel Club Aurelium, si ha un nostalgico e affettuoso ricordo.
Roma, 18 dicembre 2009
Grand Hotel “Parco dei Principi”
E’ molto difficile ammettere che nella stessa persona
possano albergare sentimenti contrapposti come quello del guerriero feroce
e sanguinario e quello del principe letterato e mecenate. Eppure talvolta
accade.
Il normanno Roberto I il Guiscardo, duca di Puglia, si adoperò non
poco a favore della famosa Schola salernitana, scuola medica già nota
nel secolo IX anche grazie all’opera di personaggi di grande cultura
come l’ebreo Donnolo, e che agli inizi dell’undicesimo secolo
aveva ricevuto un forte impulso innovatore, specialmente nel campo della chirurgia
dopo la traduzione in latino dall’arabo dell’”Arte medica”
di Galeno da parte del cartaginese Costantino Africano. Ci sarebbe da riflettere
non poco su questo esempio, lontanissimo nel tempo, di collaborazione e convergenza,
seppure non concordate, tra uomini diversi per origini e cultura: ebraica,
africana, latina e araba!
Eppure lo stesso personaggio, Roberto I il Guiscardo, duca di Puglia, nel
1084 guidava la soldataglia che si abbatté su Roma come un uragano,
da vero e proprio” dies irae”: Normanni e Saraceni si ubriacarono
in un’orgia di sangue senza precedenti e, dopo aver scannato, stuprato,
mozzato mani e dita per meglio procurarsi anelli e monili, portarono con sé
migliaia di Romani che furono poi venduti come schiavi.
Una perfetta concreta anticipazione della stevensoniana storia del Dottor
Jekyll e del Signor Hyde!
E la stessa furia devastatrice si abbatté anche sulla la primitiva
chiesa di S.Clemente, edificata nel IV secolo sopra una casa romana del I
secolo dell’epoca imperiale, forse la stessa dove S.Clemente, terzo
successore di Pietro alla guida della nascente Chiesa romana, riuniva i fedeli.
Ma neppure questa costruzione costituisce il livello primario dell’intero
edificio: infatti la casa romana è sovrapposta ad una precedente costruzione
dell’epoca repubblicana, forse adibita inizialmente a magazzini e poi
utilizzata quale luogo di culto mitraico. Quindi la riedificazione della chiesa,
avvenuta sempre nel XII secolo e voluta dal papa Pasquale II, rappresenta
il quarto livello di una serie di costruzioni sovrapposte.
L’attuale chiesa, per la cui realizzazione furono impiegati in parte
materiali e frammenti decorativi della precedente distrutta nel 1084, fu soggetta
nel tempo a restauri ed abbellimenti ad opera di vari papi, finché
Clemente XI, con un incarico affidato a Domenico Fontana, la consegnò
ai posteri, nel 1715, così come oggi la vediamo.
E gli stemmi di Clemente XI, affrescati da Giuseppe Chiari, accompagnano il
grande quadro centrale che ricorda il “Trionfo di S.Clemente”
e insieme si offrono alla visione del visitatore. Il quale non può
non rimanere attratto dal superbo spettacolo della “Schola cantorum”,
recuperata dalla basilica inferiore e posta al centro della navata principale.
Sopra le bellissime opere rappresentate dal candelabro tortile, dal leggio,
dal presbiterio elevato e dall’altare maggiore, splendono con mille
luci e colori i mosaici del XII secolo che ricoprono l’abside e l’arcone.
Nel contenuto spazio riservato ad un resoconto informativo e non divulgativo,
quale è il presente lavoro, non è consentito dilungarsi eccessivamente
nella descrizioni dei luoghi visitati; anche se lo spettacolo inusitato che
domenica 17 gennaio si offriva al nutrito gruppo di amici dell’Aurelium
meriterebbe una pubblicazione a parte, non fosse altro che per il turbamento
che, una volta discesi nella basilica inferiore, scoperta nel 1857, e poi
ancora più in basso nelle stanze dell’epoca imperiale e nel tempio
di Mitra, l’eroe persiano i cui seguaci furono accaniti persecutori
di cristiani, si prova nel percorrere angusti e tortuosi ambienti, dove duemila
anni orsono si riunivano persone mosse
da motivazioni varie secondo le epoche, ma sempre aggreganti, lasciando del
loro passaggio tracce che oggi si tenta di interpretare per ricostruire, oltre
agli ambienti, anche sentimenti e modi di vivere.
E i brevi accenni riferiti a quanto di meraviglioso e importante, sia dal
punto di vista storico che artistico, è possibile rintracciare in un
edificio che racchiude in sé oltre duemila anni di storia, non possono
avere la pretesa di assurgere a guida turistica e culturale. Possono, al più,
invogliare i lettori, assenti domenica 17 gennaio, a programmare una visita
ad uno dei luoghi più interessanti e suggestivi che la nostra imprevedibile
Roma conserva nel suo seno. Alcuni degli amici, soddisfatti spiritualmente
ma non materialmente, si sono poi diretti alla Casa dell’Aviatore, dove
hanno potuto colmare le lacune presenti con ampio e gradito materiale a propria
disposizione.
Roma, 17 gennaio 2010
Basilica di S. Clemente - Roma
Però cosa può significare un piccolo segno
grafico come un accento! Il biblico Mosé fu salvato dalle acque, dalle
acque salvò il fuggiasco popolo ebreo, un moderno Mose (senza accento)
dovrà vedersela con le acque. Intendiamo riferirci a Venezia e ai tentativi
in atto per realizzare un sistema di difesa che riesca a frenare in qualche
modo l’irrompere del mare verso la città lagunare con il suo
deleterio fenomeno dell’acqua alta.
Nel suo libro “Signora dell’acqua”, Nantas Salvataggio s’inventa
un episodio che vede protagonista un quartetto di tutto rispetto, Vivaldi,
Goldoni, Casanova e Mozart i quali, alla vigilia della morte della Repubblica
veneziana, 12 maggio 1797, si scambiano alcune impressioni sulla declinante
città e il compositore austriaco confessa di capire perché “Venezia
ha un caratterino tutto suo: è il solo posto al mondo dove i cavalli
stanno in aria, i leoni hanno le ali e i piccioni vanno a piedi”. Con
grande immodestia, vorrei dire che si era dimenticato di aggiungere che si
va a fare shopping nei negozi e a prendere il caffè in gondola. Caratteristiche,
queste, che possono anche destare curiosità e offrire motivo di diversivo
al popolo vacanziero che ogni giorno invade Venezia; certamente lo sono un
po’ meno per gli ormai residui abitanti e, ancor più, per la
città stessa che ormai avverte come un ulteriore ennesimo schiaffo
alle proprie strutture ogni verificarsi del fenomeno dell’acqua alta.
D’altro canto, come pensare che ormai la città, quasi interamente
costruita su tronchi d’albero infissi su di un fondale melmoso e sabbioso
che non riusciva a sostenere il peso di marmi e pietre, non dovesse mostrare,
con il passare dei secoli, cenni di cedimento. E i Veneziani non furono assolutamente
avari nella utilizzazione del legno offerto loro dai rigogliosi boschi dell’entroterra:
basti ricordare che nella costruzione della Chiesa della Salute, prezioso
gioiello del XVII secolo, furono infissi nel fondale marino quasi un milione
e duecentomila tronchi d’albero, così ravvicinati da costituire
loro stessi il primo pavimento. Purtroppo oggi, dopo quindici secoli dai primi
insediamenti e tredici dalla costituzione di una città-stato, occorre
prendere atto che se si vuole conservare un patrimonio che tutto il mondo
c’invidia, dobbiamo assumere iniziative radicali e non più procrastinabili.
Strano destino quello di Venezia! Sull’acqua e con l’acqua, che
le ha garantito piena sicurezza, ha fondato la sua potenza e la sua ricchezza
per dodici secoli. Oggi, da questo stesso elemento viene minacciata mortalmente.
Questa stessa amica-nemica alla quale ha dedicato ogni tipo di cura, addirittura
istituendo, agli inizi del 1500, un organo che aveva l’incarico di controllare
la laguna: il Magistrato alle Acque, istituto ereditato poi dallo stato italiano
e che ha ancora sede in Venezia.
La disastrosa alluvione del 4 novembre 1966, che con i suoi 194 centimetri
di acqua alta doveva rappresentare la più eccezionale del XX secolo,
deve aver costituito l’ennesimo e, speriamo, definitivo campanello di
allarme alle orecchie di tutte le istituzioni, il mondo scientifico, politico
e culturale, i mezzi di informazione e la popolazione: non c’era più
tempo da perdere. Anche questa volta, come era accaduto con il crollo del
campanile, l’acqua infuriata che si era impadronita della Piazza e limacciosa
vorticava nel Canal Grande, non aveva fatto vittime. Ma lo sconcerto e il
terrore erano stati enormi. E con i primi anni settanta, con il susseguirsi
di leggi speciali e di concorsi per acquisire progetti, ha inizio il cammino
che dovrebbe portare a realizzare un ambizioso risultato: difendere, recuperare
e riqualificare uno dei luoghi eletto patrimonio dell’umanità:
Venezia e la sua laguna.
Quest’opera, il cui nome MO.S.E. costituisce l’acronimo di MOdulo
Sperimentale Elettromeccanico, consiste in un sistema integrato di difesa
costituito da schiere di paratoie mobili a scomparsa, in grado di isolare
la laguna veneta dal mare Adriatico durante gli eventi di alta marea superiori
a 110 centimetri. Queste paratie saranno posizionate davanti alle tre bocche
di porto del Lido, di Malamocco e di Chioggia, bocche attraverso le quali
l’Adriatico affluisce nei momenti di alta marea e si riversa sulla laguna.
Come sopra accennato, il cammino del progetto ha avuto inizio, sia pure in
forma di semplice studio, nei primi anni settanta ed è andato avanti
come un percorso ad ostacoli: infatti si è dovuti arrivare al 2003
per la posa della prima pietra e, se non si presenteranno altri inciampi e
se, soprattutto, non verranno meno i necessari finanziamenti, la conclusione
dei lavori, oggi al 60%, è prevista per il 2014. A quel punto dovrebbero
essere stati necessari quasi cinque milioni di euro.
In precedenza è stato chiarito che i lavori del MO.S.E. interessano
tre bocche di porto. Direttore dei lavori in corrispondenza della bocca di
porto di Chioggia è il nostro amico Ing. Maurizio Moroni, illustre
socio del nostro Aurelium. E a lui la sera del 22 gennaio u.s. è stato
affidato l’incarico di intrattenere soci e amici su questo argomento
dai risvolti non soltanto tecnici, ma anche inediti e di quotidiana curiosità,
destando vivissimo interesse nei presenti, intervenuti numerosi. E si deve
al Presidente Mele se, nel solco di una tradizione ormai consolidata da numerosi
esempi pregressi, ha voluto valorizzare una delle tante professionalità
che arricchiscono il nostro Club, riservandogli un incontro come protagonista.
Alla conferenza dell’amico Moroni è seguito un intervento della
Prof.ssa Patrizia Ghelardini, ospite della serata assieme ai colleghi Luciano
Paolozzi e Giuseppe Luzi, la quale ha presentato i risultati della ricerca
su nuovi antibiotici anti-resistenza batterica, ricerca alla quale il nostro
Club, nell’annata 2006-2007, ha contribuito con un service in danaro.
Il presente resoconto, necessariamente conciso, non può rappresentare
il luogo più adatto ad una divulgazione di un argomento altamente scientifico,
anche per la inadeguatezza culturale di chi scrive. Comunque non si può
non evidenziare, estrapolando dalla dotta conversazione della Prof.ssa Ghelardini,
un argomento che ha colpito particolarmente l’uditorio e cioè
la facilità con la quale la popolazione microbica assume valori superiori
al milione di individui, per cui diviene altamente probabile una spontanea
modificazione del patrimonio genetico. Ed è questa caratteristica che
consente ai batteri di ritrovare l’assetto più opportuno per
sopravvivere in qualsiasi circostanza, compresa quella dell’azione letale
degli antibiotici.
Si può facilmente immaginare quali possono essere le conseguenze legate
a tale fenomeno: il completo fallimento terapeutico. Gli studi portati avanti
dalla Prof.ssa Ghelardini e dai suoi valorosi colleghi Paolozzi e Luzi sono
proprio mirati a contrastare l’insorgere della sopra descritta resistenza
batterica, recuperando agli antibiotici tutto il loro rassicurante potere.
E il nostro Club ha preso atto della meritevole opera dei ricercatori e, per
quanto è stato possibile, ha ritenuto di dover contribuire alla prosecuzione
della meritevole operazione.
Roma, 22 gennaio 2010
Circolo dell’Esercito Italiano – V.le Castro Pretorio
Stavo navigando su internet per cercare alcune notizie e
curiosità per arricchire il resoconto della serata del 12 febbraio
u.s., svoltasi presso il Circolo della Guardia di Finanza e che aveva come
tema informativo “Le falsificazioni monetarie più comuni”,
allorquando mi sono imbattuto in un certo Umberto Mannucci, autore di una
pubblicazione Hoepli dal titolo “La moneta e la falsa monetazione”.
Certo che dal nostro Past Governatore Distrettuale Emerito (quest’ultimo
appellativo gli spetta di diritto e sùbito, prima che venga ulteriormente
inflazionato) tutto ci si poteva aspettare, ma che addirittura si intendesse
di monetazione falsa, lui che aveva sempre mostrato, giustamente e meritatamente,
interesse per quella vera era troppo difficile da mandare giù.
Poi, rileggendo con più attenzione la notizia, potevo scoprire che
“Mannucci” aveva due enne e che la pubblicazione era datata 1908.
Si poteva passare sopra l’errato cognome (accade anche oggi); ma era
difficile accettare che il Nostro potesse partorire pubblicazioni ancor prima
di essere partorito lui.
Cosicché sono rientrato dalla mia stupita curiosità e ho recuperato
quei pochi appunti che avevo preso nel corso della interessante, ma stringata,
conferenza che sul tema in oggetto aveva svolto il Dott. Col. Paolo Costantini,
coadiuvato da un suo collaboratore con una serie di filmati che ritraevano
malviventi nell’esercizio delle loro funzioni (sic!). Immagini catturate
da telecamere che con estrema perizia erano state strategicamente collocate
da uomini della Guardia di Finanza.
A dire la verità, hanno fatto un po’ di tenerezza quelle figure
sfocate che armeggiavano, quasi fluttuando in una grigia nebbia, attorno ad
una macchina stampatrice che sembrava essere identica a quella che avevamo
visto utilizzare da Totò, Peppino de Filippo e Giacomo Furia, compagni
in una improbabile banda di falsari dilettanti, desiderosi unicamente di permettersi
di comprare un cappotto di lana e un paio di scarpe con lo “scrocchio”.
Ovviamente da ben altre intenzioni erano animati gli individui ripresi (e,
per fortuna, presi in manette) dagli uomini delle Fiamme Gialle se, come abbiamo
appreso, facevano parte di un fenomeno talmente esteso da inondare, con il
loro prodotto, la circolazione monetaria, ora sopranazionale, in maniera preoccupante
e con una tale sofisticazione da passare inosservato alla maggior parte degli
utilizzatori.
Anche perché il taglio preferito della moneta falsificata si attesta
sul medio-basso, dove minore attenzione viene prestata e dove maggiore è
la velocità di circolazione.
La falsificazione monetaria è un fenomeno antico, nato con la stessa
monetazione, allorquando venne abbandonato il baratto a beneficio di un mezzo
obbiettivamente neutro nei confronti dei beni da scambiare e più facile
da tesaurizzare. Le vicende riferite al diritto e alla potestà di conio
sono strettamente legate alla evoluzione della società, passata dal
piccolo o grande gruppo tribale allo stato sovrano, più o meno esteso
e fino ad organizzarsi in forma sovranazionale. E l’inventiva nel trarre
beneficio da azioni contrarie alle leggi che regolano l’emissione legale
della moneta non ha mai conosciuto limiti e, sicuramente, a questo fenomeno,
interessante e curioso nel contempo, dovrebbe essere dedicata la pubblicazione
che , come dicevo in precedenza, mi ha colpito nell’iniziare questo
mio resoconto.
E il fenomeno non conosce limiti anche dal punto di vista dei protagonisti,
se tra costoro possiamo annoverare personaggi al vertice della società,
addirittura una nazione stessa, come accadde durante la Seconda guerra mondiale,
quando Hitler tentò di sconvolgere l’economia dell’Inghilterra,
facendo stampare e immettere sul mercato inglese ingenti quantitativi di sterline
false. Anche in Italia abbiamo avuto un episodio di falsa monetazione, la
cui responsabilità non fu quella di sparuti gruppetti di falsari più
o meno organizzati, bensì di dirigenti apicali di banche.
Episodio che tutti ricordano come la scandalo della Banca Romana, istituto
di credito che, con altre cinque banche, aveva la facoltà di stampare
e mettere in circolazione carta moneta e che ancora riusciva ad impedire che
l’emissione della moneta fosse affidata, come avvenne in seguito, alla
sola Banca d’Italia, che allora si chiamava Banca Nazionale.
Quando il boom edilizio romano, causato dal trasferimento a Roma della capitale,
si afflosciò e creò la solita voragine di fallimenti, la Banca
Romana si trovò seppellita da una valanga di crediti inesigibili, al
punto di rischiare il fallimento. L’inchiesta ministeriale accertò
che la banca, per evitare il disastro, non soltanto aveva messo in circolazione
moneta per 25 milioni più del consentito, ma ne aveva stampato clandestinamente
altri 9 milioni, che oggi corrisponderebbero a parecchie diecine di miliardi.
E lo aveva fatto riprendendo le numerazioni già utilizzate in precedenza.
Fu vera e propria falsificazione? Personalmente (e ignorantemente) ho i miei
dubbi, visto che il “falsario” era legittimamente facultizzato
a battere moneta, aveva utilizzato materiale e mezzi autentici legalmente
posseduti. Forse anche per questi motivi, ancora una volta e in puro stile
italico, il balletto delle varie personalità dell’epoca - Giolitti,
Crispi, Colajanni ed altri ancora - l’una contro l’altra armata
e con coperture monarchiche, massoniche e da Oltretevere, riuscì a
realizzare il solito finale “a tarallucci e vino”. Gli stessi
“tarallucci e vino” che hanno aperto e chiuso la seconda parte
della serata conviviale che, non dimentichiamolo, era dedicata anche al declinante
Carnevale, declino compiutosi al suono di una languida tastiera, alla voce
di una graziosa cantante e alla temeraria esibizione danzante di alcune irriducibili
coppie di soci ballerini.
Sicuramente non avranno avuto necessità di aspergersi delle rituali
Ceneri.
Roma, 12 febbraio 2010
Villa Spada - Circolo Guardia di Finanza
Quando il giovane maestro e compositore Francesco Lanzillotta
ha impugnato il microfono “gelato” per ringraziare, nella persona
del Presidente Mele, il Lions Club Roma Aurelium che aveva voluto premiarlo
con una borsa di studio per le sue moltissime attività già svolte
e per quelle che ancora lo attendono, la mia attenzione è stata attratta
dalle dita lunghe e affusolate con le quali avvolgeva il piccolo strumento
elettronico. E la mia immaginazione me le ha trasportate sulla tastiera di
un pianoforte, mosse con dolcezza e sentimento nella esecuzione di una melodia
affettuosa come il “Chiaro di luna” di Beethoven, oppure frenetiche
e nervose nell’interpretare uno dei tantissimi brani del virtuoso Liszt.
Sempre e comunque non lasciandosi impressionare dalla distanza tra le varie
ottave della tastiera, padroneggiate con disinvoltura e sicurezza. Identica
plastica immagine avrei potuto avere se le dita fossero state piegate o completamente
distese sulle corde di un violino, alla ricerca della giusta nota fissata
dal russo Ciajkovskij nel suo notissimo concerto per violino. E più
tardi, assistendo alla proiezione di un DVD che lo vedeva impegnato a dirigere
un’orchestra di ampio organico che eseguiva alcune parti della Messa
da Requiem di Giuseppe Verdi, ho avuto modo di constatare che al movimento
delle mani, da me immaginato, si era aggiunto quello delle braccia e del capo,
con una gestualità imperiosa e ipnotica allo stesso tempo, con la quale
dominava sia i “soli”, sia il coro e l’orchestra.
Riconosco che per me non è facile dare un giudizio sulla efficacia
della gestualità di un direttore d’orchestra mentre si trova
sul podio: ci possiamo trovare di fronte a quella pacata e signorile di un
Giulini, a quella appena accennata di un Sawallish, a quella ieratica di un
Muti. Ad una precisa domanda potrebbero rispondere soltanto per primi gli
orchestrali che guardano il volto e le mani del loro direttore; quindi i critici
musicali e, per ultimi, gli sprovveduti come il sottoscritto, che restano
affascinati da quella figura che ben oltre la metà del diciannovesimo
secolo ancora non esisteva.
Certamente, la composizione che il Maestro Lanzillotta ha voluto offrire alla
nostra attenzione ha rappresentato un saggio della sua bravura: a memoria,
senza l’ausilio dello spartito, chiamando all’entrata di volta
in volta e con vigore strumenti, sezioni di orchestra o l’orchestra
intera, come pure le voci, ha diretto la parte forse più spettacolare
della composizione verdiana, il “Dies irae”, di una drammatica
veemenza, scaturita dalla inesauribile vena musicale del Cigno di Busseto
all’età di oltre sessant’anni ed eseguita per la prima
volta nel 1874 in memoria di Alessandro Manzoni. I critici musicali dell’epoca
videro in questa “Messa da requiem” l’abbandono, da parte
di Verdi, di quella che fino a quel momento era stata la sua sigla melodrammatica.
Giudizio errato: se ascoltiamo con attenzione la Messa, possiamo constatare
che si tratta di sette atti di una immensa tragedia posta in musica, che ha
come libretto antiche fonti liturgiche di grande forza scenica. E poi la smentita
più clamorosa a quanto sostenuto da una parte della critica la fornì,
in prosieguo di tempo, lo stesso Verdi con la sua successiva produzione, chiusa
con il trionfante “Falstaff”, composto quando aveva già
superato gli ottanta anni di età. Ma torniamo al nostro Maestro Lanzillotta,
il cui curriculum non può non destare stupore: anche se vogliamo giudicarlo
a misura, occupa un foglio continuo di carta di almeno mezzo metro. E allora
sorge spontanea una domanda: a soli trentatre anni, come avrà fatto
ad inanellare tutti quei premi, i riconoscimenti, a produrre tutte quelle
composizioni per il cinema e il teatro, a collaborare con decine di artisti,
a dirigere moltissime orchestre praticamente in tutto il mondo.
Soltanto quelle citate nel curriculum sono una dozzina.
Di tutte le manifestazioni dell’anima che ha raggiunto lo stadio più
alto della sua evoluzione, dalla vegetativa alla sensitiva, da questa alla
razionale e infine alla spirituale, la musica rappresenta senza dubbio quella
più coinvolgente e di più rapido effetto. Ma anche un dipinto
o una poesia possono commuoverci. E questo lo dobbiamo a colui che ha saputo
leggere dove tutti gli altri non sono stati in grado di farlo. Scrive Vito
Mancuso: “Quando Mozart componeva, non inventava nulla, sentiva. Quando
Rembrandt dipingeva, non inventava nulla, vedeva.” … “Diceva
Mozart: tutto è già stato composto, ma non ancora trascritto.”
L’uno e l’altro sono grandi non perché hanno inventato
qualcosa che prima non c’era, ma perché hanno visto e scoperto
una realtà che c’era da sempre.
Ora, quando incontriamo una persona che, con grande lavoro e sacrificio e
assistita da doti innate, riesce a farci mettere in contatto con i grandi
del passato che sono riusciti a far diventare anche nostri i loro pensieri
ora sotto forma di musica, ora di colore, ora di scrittura, procurando in
noi le medesime sensazioni che provarono i loro contemporanei, ci troviamo
al cospetto di un artista che ha saputo ricreare una comunione impossibile
temporalmente, ma culturalmente realizzabile. E la borsa di studio che il
Lions Club Roma Aurelium ha voluto assegnare al Maestro Lanzillotta sabato
13 marzo sta ad esprimere l’ammirazione per il suo brillante passato,
ma soprattutto l’auspicio per il luminoso futuro artistico che lo attende,
da condividere con emozione da quanti avranno il privilegio di seguirlo nelle
sue apparizioni pubbliche.
Il nostro Governatore Distrettuale Giampiero Peddis, che desideriamo ringraziare
per aver voluto onorare con la sua presenza l’avvenimento, nel suo intervento
conclusivo ha avuto espressioni di elogio nei confronti del nostro Club, di
ammirazione verso il Maestro Lanzillotta e di ringraziamento verso il nostro
socio Ennio Morricone, premio Oscar per le sue innumerevoli famose colonne
sonore per film note in tutto il mondo, cui si deve la segnalazione dell’artista
meritevole del riconoscimento.
La notizia della manifestazione ha avuto ampio e significativo spazio nella
edizione cittadina de “Il Messaggero” di martedì 16 marzo.
Roma, 13 marzo 2010
Grand Hotel “Parco dei Principi”
Pubblicato sul n° 3/2010 di “Lionismo”
Ed è stata proprio così come il Presidente
Mele l’aveva definita nella sua lettera di convocazione: una serata
semplice e dolce, sottolineata con discrezione dalla musica che la carissima
Maria Paola Manucci ha voluto regalare ad un uditorio niente affatto distratto
dai riti conviviali.
Anzi: più di una volta ci siamo trovati ad accompagnare sottovoce motivi
che avevano segnato momenti significativi di qualche anno addietro e che ora
tornavano con nostalgia (e forse anche con qualche rimpianto) perché
riproposti con dolcezza e perizia.
L’incontro è stato aperto dal consueto intervento con il quale
il Presidente ha puntualizzato la situazione del Club circa le attività
svolte e quelle ancora in calendario, situazione che deve essere considerata
soddisfacente. Ha rinnovato, comunque, l’invito ad una sempre maggiore
partecipazione alle iniziative del Club, non ultima quella che attiene al
sostegno che tutti i Soci sono chiamati a dare alla positiva riuscita della
candidatura del nostro socio Mario Paolini alla carica di secondo Vice Governatore
in occasione del prossimo Congresso distrettuale di Viterbo.
Sono seguiti due interventi che si possono definire di natura didattica, nel
senso che sono serviti a ricordare e a meglio chiarire la portata e gli scopi
di due iniziative fondamentali della nostra Associazione: il M.E.R.L. (Membership,
Extension, Retention, Leadership) e L.C.I.F. (Lions
Club International Fondation). Il primo argomento è stato affrontato
dal nostro socio Francesco Lomonaco, officer distrettuale con l’incarico
di referente del nostro Club, il quale ho sottolineato l’importanza
del gruppo operativo che ha come obiettivo il tema della crescita associativa
di qualità.
L’esposizione del tema L.C.I.F. ha visto impegnato il socio Giorgio
Dori, officer distrettuale con l’incarico di referente del nostro Club,
il quale ha brevemente ricordato le finalità di questa Fondazione che
potrebbe definirsi, in un certo senso, una specie di finanziaria della nostra
Associazione, con lo scopo di sostenere finanziariamente progetti di varia
natura, compresi quelli riferiti a situazioni di emergenza, quali calamità
naturali, utilizzando i fondi che provengono da tutti i Clubs del mondo.
Come prima scritto, la cena è stata accompagnata dalle dolci e discrete
note di canzoni indimenticabili, alcune anche interpretate da una vocina aggraziatissima,
che le esperte mani di Maria Paola faceva scaturire da un vetusto pianoforte
verticale, gioia e delizia dell’esecutrice, la quale più di una
volta si è rammaricata per non aver potuto esprimersi meglio proprio
a cagione di un strumento che reputava non all’altezza della serata.
Più di un commensale, facendo sfoggio di un proprio inesistente orecchio
musicale, ha tentato di rassicurarla che tutto andava per il meglio: ma invano.
In effetti, lo scopo di creare un intrattenimento diverso dall’usuale
cicaleccio che accompagna un pranzo era stato raggiunto ampiamente; quindi,
onore al merito di chi a ciò aveva contribuito. Ma il Presidente Mele
aveva tenuto in serbo due sorprese che sono state accolte dai presenti con
grande partecipazione: la prima si riferiva ai festeggiamenti in onore del
compleanno del socio Lomonaco, con il rituale spegnimento delle tradizionali
candeline, pudicamente concentrate in un solo esile moccolotto, e il taglio
della torta, volutamente ignorata nel menù per
meglio nascondere la sorpresa, quando tutti si stavano chiedendo a cosa potevano
servire le posate da dolce che troneggiavano sulla tavola.
La seconda sorpresa ha riguardato il conferimento al nostro socio Umberto
Manucci, PDG Emerito, di un Melvin Jones, il terzo della serie che potrà
vantare, ma il primo promosso dal nostro Club, dopo i due che gli erano stati
conferiti dal Distretto. L’amico Umberto, nel ringraziare tutto il Club
nella persona del Presidente Mele, si è ripromesso, con la modestia
che lo contraddistingue, di toccare la soglia dei cinque, stabilendo così
un record difficilmente eguagliabile.
E sarebbe un investimento economico non da poco, visto che ad ogni onorificenza
corrisponde un brillantino incastonato nel distintivo.
Il rituale tocco della Campana da parte del Presidente ha concluso la serata
nella sua parte ufficiale, dopo che la gentile consorte Margherita aveva omaggiato
le signore presenti di una graziosa confezione di profumata lavanda. A questo
punto, su iniziativa di un past Presidente, per giunta il socio più
anziano come appartenenza, ha avuto inizio una specie di esibizione canora,
alla quale si è gentilmente prestata la dolce Maria Paola accompagnandola
al piano e che ha visto, in rapida successione, coinvolti altri canterini,
fino a raggiungere la consistenza di un mezzo coro orchestrale, per la verità
con risultati non molto polifonici, ma comunque sempre animati da buona volontà.
Altri contributi canori sono stati colti al volo dal Presidente in una specie
di tour
tra i tavoli e ai quali, immodestamente, ha partecipato anche il vostro cronista,
con risultati tutti da dimenticare.
Alla fine l’esibizione si è spenta per inevitabile sfinimento
dei protagonisti, esausti e senza voce. E, allora: tutti a casa!
Roma, 26 marzo 2010
Grand Hotel “Parco dei Principi”
Personalmente non conosco i motivi per i quali l’amica
Clelia Muzii e il fratello Silvio abbiano, a suo tempo, privilegiato l’Oratorio
del Gonfalone per coltivare le loro inclinazioni nei confronti della musica,
tanto da farne il punto d’incontro di manifestazioni di grande richiamo
per intenditori e appassionati. Debbo, però, riconoscere che mai scelta
fu più felice e fortunata, avendo coniugato in un unico ambiente due
somme espressioni dell’arte: la musica e la pittura.
E, come ogni bravo romano verace che si rispetti e che ignora tanta parte
delle bellezze che la sua grande Città conserva, ho preso coscienza
con colpevole ritardo dell’esistenza di tale unione e più precisamente
agli inizi del 2001, quando l’Aurelium, su iniziativa dell’allora
Presidente Dori e con la collaborazione della sempre presente Clelia (per
gli amici Lia), fu organizzato un concerto in onore del nostro socio Ennio
Morricone, del quale fu eseguita molta della sua famosissima musica e al quale
fu conferita la massima onorificenza lionistica, il Melvin Jones Yellow.
L’Oratorio del Gonfalone, la cui costruzione e decorazione vennero ultimate
nel 1580, fu completato con la sua facciata alcuni decenni dopo e raccoglie,
lungo le pareti interne, il grande ciclo della Passione di Cristo, secondo
il ritmo dell’antica Sacra Rappresentazione, con una serie di affreschi
realizzati da molti pittori, che vanno dal primo, ”L’Ingresso
di Cristo a Gerusalemme”, firmato dal Bertoja, all’ultimo, “La
Resurrezione di Cristo”, opera di Marco Pino. La Compagnia del Gonfalone,
attiva specialmente nel campo assistenziale, fu riconosciuta ufficialmente
da Papa Clemente IV con un “Breve” del 1267 e nel tempo si meritò
grandi benemerenze, tra le quali anche la “Rosa d’Oro”,
conferita nel 1526 da parte di Clemente VII. Assunta in seguito al rango di
Arciconfraternita, nel cinquecento si installò nell’attuale Oratorio.
Tutte le vicende dell’edificio, dalla sua costruzione e decorazione
agli interventi di restauro, datati 1960 e 1999, nel corso della conviviale
del 30 aprile u.s., sono stati illustrati dal Prof.
Claudio Strinati, Sovrintendente Speciale del Polo Musicale Romano, la cui
esposizione, completata dalla proiezione di un DVD, del quale Lia ha poi fatto
omaggio a tutti i presenti, è stata seguita con profondo interesse
da un uditorio attentissimo. La serata è stata onorata dalla presenza
del Presidente del Coro Polifonico Emilio Acerna e dal suo Direttore Artistico
Angelo Persichilli.
Ma, sempre nel solco delle iniziative realizzate dall’amica Lia, merita
di essere ricordato che dal 1998, nei locali sottostanti l’Oratorio
è ospitata una prestigiosa, amplissima raccolta di registrazioni musicali,
donata da Lia a perenne memoria del fratello Silvio, anche lui socio dell’Aurelium,
persona di una cultura vastissima, che andava dalla filologia classica alla
letteratura greca, latina e italiana, dalla storia della filosofia a quella
delle religioni, dalle arti figurative alla musica.
La serata ha avuto una conclusione tutta interna alla nostra vita di club,
con l’ingresso di due nuovi soci, il Gr. Uff. Dott. Giuseppe Pastena,
prefetto a riposo, e il Dott. David Marcelli, conosciuto per la sua militanza
nel Leo Club Aurelium, entrambi presentati dal socio Prof. Avv.
Giuseppe Gugliuzza, il quale ne ha letto i curricula e, con visibile emozione,
ha loro consegnato il distintivo della nostra Associazione, dopo che, padrino
e nuovi soci, avevano espresso formale ed esplicita adesione alle finalità
del Lionismo, lette solennemente dal Cerimoniere Dori.
Roma, 7 maggio 2010
Grand Hotel “Parco dei Principi”
William Blackwhite, facoltoso mercante inglese di stoffe
pregiate e molto conosciuto per la sua grande fede religiosa, era rimasto
profondamente colpito dalla lettura dello scarno ma esatto documento con il
quale Segerico, arcivescovo di Canterbury, nel 990, di ritorno da Roma, aveva
elencato le 79 tappe che avevano punteggiato il lungo percorso dalla sua città
alla Città Eterna. Erano trascorsi più di cinque secoli da quell’illustre
pellegrinaggio e già molti altri fedeli si erano avventurati e, spinti
da tenace fede, ancora si avventuravano sul percorso lungo migliaia di chilometri,
denso di pericoli di ogni genere, sia da quelli rappresentati dalla natura
sconosciuta e ostile che da briganti e predoni, che erano i veri e propri
padroni di strade e sentieri insicuri.
Ma la fede che lo animava e, ammettiamolo, la speranza di aprire nuovi proficui
canali al suo mestiere, spinsero William Blackwhite ad intraprendere un’avventura
dalla quale trarre ristoro sia per l’anima che per la borsa. Studiò
bene il tragitto, chiese informazioni e consigli ad
altre persone che avevano in passato praticato il pellegrinaggio lungo una
strada che, per il fatto di attraversare da nord a sud tutta la Francia, era
stata denominata “La Via Francigena” e ai primi giorni del 1560
si mise in viaggio e qualche tempo dopo pose piede sul continente, e più
precisamente a Calais, città che soltanto da due anni era tornata francese,
dopo due secoli di dominio inglese. Era la prima tappa sul suolo europeo,
la prima di un lungo tragitto che l’avrebbe portato, alle porte di Roma,
a soggiornare, prima dell’ultimo balzo, in un castello-casale del XII
secolo sulla Via Cassia e che era noto ai pellegrini per aver dato il nome
a tutta la località,”La Castelluccia”, ma anche per la
sua ospitalità, povera ma confortevole.
Ma al buon Blackwhite accadde uno strano e, per certi versi, incredibile fenomeno:
da quel momento in poi, cioè dal suo sbarco a Calais, il tempo iniziò
a scorrere per lui in maniera talmente veloce che, in poche settimane, si
trovò a vivere, pur restando sempre se stesso, in anni e secoli sempre
più in avanti e divenne spettatore e, a sua insaputa, anche protagonista
di avvenimenti che stavano delineando un nuovo profilo all’Europa, e
non soltanto ad essa: la Riforma del monaco agostiniano Lutero, la Guerra
dei Trent’anni, l’inizio della decadenza della Repubblica veneziana,
il consolidarsi dell’egemonia turca sul Mediterraneo, il lento ma continuo
espandersi, tra alterne vicende, del Papato e del Piemonte.
Mentre attraversava la Francia (ed era ormai il XVIII secolo), era stato sfiorato
dal fatidico 14 luglio 1789 e, di gran carriera, si era precipitato verso
Besancon, tornata francese poco più di un secolo prima. E mentre ancora
si stava chiedendo come diavolo ci fossero capitati nel 1649 , lì a
Besancon, gli spagnoli, si trovò ad attraversare le Alpi al Passo del
Gran San Bernardo.
Fece il suo ingresso ad Aosta proprio nell’anno in cui la città
entrò a far parte del Regno di Sardegna (1794), precedendo di appena
due anni la campagna d’Italia di Napoleone. A questo punto qualche lettore
si potrebbe porre la domanda: ma questo tizio, che se ne va in giro per l’Europa
vestito secondo la moda dei tempi di Shakespeare, come fa a passare inosservato?
Si fa presto a rispondere: con tutti i guai che a quel tempo imperversavano,
vuoi che la gente si potesse interessare di un poveraccio (almeno dall’aspetto)
che se ne andava in giro badando soltanto ai casi suoi?
Comunque proseguiva con il suo viaggio in Italia. E continuava, facendo molta
attenzione a non lasciarsi coinvolgere da tutto quello che stava accadendo
in quel benedetto “Bel Paese”: la Repubblica Cisalpina, la caduta
di Venezia e quella del regime napoleonico, la restaurazione dei vari governanti,
compreso il Papa, deposti dal Bonaparte, i moti rivoluzionari del 1830, la
guerra contro l’Austria del 1848, Mazzini, Garibaldi, la spedizione
dei Mille, Teano, la Breccia di Porta Pia, l’Unità d’Italia.
E via di questo passo, fino alla Grande Guerra del 1915-18
e all’avvento del Fascismo, alla seconda Guerra mondiale, alla caduta
della Monarchia e, infine, alla instaurazione della Repubblica. Imperterrito,
il Blackwhite continuava nel suo viaggio verso Roma, facendo tappa a Pavia,
a Parma, a Pontremoli, a Lucca, a S.Gimignano, a Siena, a Bolsena, a Sutri.
E proprio mentre si stava riposando in questa ultima amena località
(si era ormai, in quel momento, al primo decennio del 2000 ), venne a sapere
che nell’aprile del 1932 il Capo del Governo Benito Mussolini aveva
compiuto una visita alla tenuta “Castelluccia alla Storta”, per
assegnare ufficialmente le abitazioni ad alcune famiglie coloniche che si
andavano ad insediare nella tenuta. Quando si dice da dove parte il buon esempio!
Spinto dalla curiosità e ansioso di poter finalmente terminare il lungo
e travagliato viaggio e di riposarsi alla dolce frescura dell’antico
castello per poi incamminarsi lungo l’antica Via Triumphalis che l’avrebbe
condotto fino alla porta santa della basilica di San Pietro, l’ormai
pluricentenario pellegrino inglese riprese il cammino e, poco dopo, si trovò
ad entrare in un comprensorio pieno di moderne costruzioni dalla diversa fattura:
strisce di palazzine lunghe centinaia di metri, tutte uguali, anche nel colore
ocra, con il loro ingresso riservato e separato dagli altri da un sottile
muretto; alcuni piccoli edifici di appena due-tre piani; e poi alcune ville
isolate, delle quali di scorgeva a malapena il tetto che si elevava al di
sopra di severe e robuste mura, seminascosto da vegetazione alta e rigogliosa.
Mentre un po’ sconcertato Blackwhite si stava chiedendo dove fosse andato
a finire tutto quel verde di cui tanto aveva sentito raccontare, vide un tizio
che con aria alquanto rassegnata portava al guinzaglio un cane bello grasso
che, alla ricerca del posticino preferito, annusando costeggiava un muro oltre
il quale si udivano provenire voci e suoni che stavano a testimoniare la presenza
di parecchie persone. L’inglese, con deferenza e alquanto vergognoso
per il suo ormai da molto tempo sorpassato abbigliamento, si rivolse all’annoiato
uomo per chiedergli notizie sia del verde non trovato che di quanto stesse
accadendo nella villa della quale poteva scorgere, oltre il muro, il dolce
declinare di un tetto signorile e le cime altissime di piante secolari. Con
fare scocciato, l’accompagnatore del cane rispose che del verde lui
non sapeva un bel niente e, per quanto riguardava cosa stesse accadendo oltre
il muro, disse di aver
saputo in giro che c’era un raduno di leoni. “E più non
so’”.
Blackwhite restò sconcertato dalla risposta avuta: non sapeva molto
di leoni e di altre bestie feroci; ma gli rimaneva un po’ difficile
accettare la notizia che dei leoni potessero parlare e ridere. E poi ascoltare
musica! Forse siamo vicini ad un circo equestre? Cosicché, visto che
il cancello d’entrata della villa era rimasto leggermente aperto, con
fare furtivo e cercando riparo nei rigogliosi cespugli disseminati un po’
dappertutto, s’intrufolò all’interno e poté scorgere,
raccolti su di un bel prato all’inglese (sic!), distinti signori e belle
signore che amabilmente conversavano tra loro, si scambiavano complimenti
affettuosi, accompagnati da sincere risate, in un vorticoso incrociarsi di
incontri con altre persone che affollavano gazebo, panchine e sdraie.
Al riparo di enormi ombrelloni, una lunga tavola mostrava una sequela senza
fine di pietanze prelibatissime, alla cui vista il pellegrino, che da tempo
immemorabile si cibava ormai di solo pane e qualche cipolla, sentì
salirgli alle labbra non un’acquolina, ma un torrente di saliva che,
sgorgando, andò a colargli lungo la incolta barba e il sudicio corpetto.
A pochissima distanza, un giovin signore pigiava le dita su una piccola colorata
spinetta, dalla quale scaturivano dolci melodie che non riuscivano, però,
a sovrastare il lieto cicaleccio che regnava sovrano. Ma il giovin signore
continuava nel suo impegno con fare languido e trasognato. Sicuramente il
languore gli veniva procurato dalla vicinanza di tutto quel ben di dio esposto
e a lui non accessibile, almeno per ora.
L’intrusione di Blackwhite durò molto a lungo, ma di leoni nessuna
traccia. Le diverse decine di partecipanti alla riunione presero d’assalto
la tavola delle cibarie: ma il tutto avvenne con stile e signorilità,
anche se con entusiasmo e ad una velocità incredibile, vista l’età
media dei convitati. Una signora e un signore, probabilmente gli anfitrioni
padroni di casa, si affannavano a destra e a manca affinché ognuno
si sentisse a proprio agio e non mancassero posate, bicchieri, acqua e vino
a volontà, dando acconce istruzioni al personale di servizio per aggiungere
tavoli e sedie, laddove se ne avvisasse la carenza. Poi, satolli e soddisfatti,
giacquero mollemente abbandonati su panchine e sdraie; e proprio nel momento
in cui sarebbe stata gradita qualche nenia accattivante, la musica taceva,
perché il giovin signore si era avvicinato alla residuata tavola e
si stava rifocillando, ponendo fine al suo languore.
Improvvisamente la scena tornò a rianimarsi: si stavano ricordando,
con l’aiuto di una piccola scatola che creava immagini su di un lenzuolo,
alcuni momenti di una recente riunione, nel corso della quale uno dei presenti,
un tal Mario, aveva ottenuto un prestigioso incarico (1).
Da tutti i presenti si levò una serie di applausi e complimenti unanimi
e convinti verso l’illustre personaggio il quale, commosso, ringraziò
e promise cose importanti. Fu poi la volta di un altro signore, Giancarlo,
del quale furono ricordate notevoli imprese, che gli erano valse il conferimento
di una medaglia d’oro (2). A questo punto, colui che sembrava essere
il padrone di casa aggiunse, anche a nome della gentile e ospitalissima consorte,
i suoi personali auguri, accompagnati dall’esortazione a tutti a trarre
esempio dai fatti ricordati per una sempre maggiore e fattiva presenza agli
impegni dell’associazione che, a quanto veniva illustrando, riguardavano
sia gli individui che la società nella quale essi vivevano, anche con
aiuti concreti.
Unanime fu il consenso e l’approvazione da parte di tutti, anche dal
Blackwhite il quale, viste le condizioni in cui si trovava, provò l’impulso
di balzare fuori dai cespugli per offrirsi, pronto ad essere aiutato, in tutti
i sensi. Ma il timore di arrecare, con il suo aspetto e abbigliamento, stupore
e sconcerto in tutti gli astanti e, forse, vedersi aizzato addosso un paio
di servitori in giacca bianca, lo frenò.
Di soppiatto, così come era entrato, scivolò fuori dalla villa
e riprese il cammino verso la Via Triumphalis, facendo attenzione a non farsi
arrotare da qualcuna delle centinaia di carrozze senza cavalli e puzzolenti
che lo sfioravano da tutti i lati. Mentre già pensava al viaggio di
ritorno, rifletteva sulla circostanza che, se questi erano i leoni, i veri
leoni e non quelli dei quali si favoleggiava come mangiatori di cristiani
e re della foresta, forse non sarebbe stata cosa sbagliata, una volta rientrato
nella natìa Canterbury, tentare di mettere in piedi un gruppo di persone
che, in qualche modo, ricordasse quello di cui era stato testimone in quella
località denominata “La Castelluccia”.
Ma questa è tutta un’altra storia.
Roma, 23 maggio 2010
“La Castelluccia” - Roma
(1) Trattasi del socio Mario Paolini, eletto alla carica di II Vice Governatore
Distrettuale all’ultimo Congresso di Viterbo.
(2) Trattasi del socio Giancarlo Iachetti, al quale è stata conferita
la medaglia d’oro quale vittima del terrorismo, per i fatti accaduti
a Roma il 17 marzo 1977.
La “Missione del Lions Club International”, promulgata
sul finire degli anni novanta, recita così: “Creare e promuovere
tra tutti i popoli uno spirito di comprensione per i bisogni umanitari attraverso
volontari servizi coinvolgenti le comunità e la cooperazione internazionale”.
Con il medesimo intendimento, chi scrive così chiudeva il suo contributo
alla rubrica della rivista The Lion “Diamo idee…” con l’articolo
“Dalle parole ai fatti”: “Cominciamo a fare politica, vivendo
la vita della polis, prendendo coscienza delle necessità della società
che ci circonda e nella quale viviamo, talvolta anche in maniera disattenta.”
Si era all’inizio dell’annata 2000-2001 e il Presidente Dori stabilì
il primo contatto con gli amministratori del XVIII Municipio di Roma e iniziò
così un lungo cammino, formalizzato addirittura da una Carta di Gemellaggio,
sottoscritta il 18 maggio 2002 dal Presidente del nostro Club Dott. Filippo
Lucibelli e dal Presidente del XVIII Municipio On. Vincenzo Fratta. Poco dopo,
e precisamente il 21 giugno 2002, in virtù di questo legame e a seguito
di una delibera assunta dal Municipio, fu possibile intitolare al fondatore
della nostra Associazione, Melvin Jones, un parco situato tra Via Aurelia
Antica e Via Pietro De Francisci, nel cuore di quella parte di Roma che il
nostro club, anche in omaggio al nome Aurelium, aveva individuato quale territorio
sul quale concentrare la sua attività.
Oggi, a ormai dieci anni dall’inizio di una collaborazione sincera e
proficua, della quale si vorrà di seguito ricordare, anche se in maniera
incompleta ma con giustificato risalto, le iniziative che ne hanno contrassegnato
il cammino, il Club Aurelium è tornato ad incontrare le autorità
locali, organizzando con le medesime la “Prima Festa della Solidarietà”,
in un ambiente che, dopo alcuni anni di abbandono durante i quali è
stato oggetto di ignobili atti da parte di scellerate persone, ha ritrovato
tutto il suo splendore grazie all’intervento dell’Associazione
SolidAbile onlus, un sodalizio da tempo radicato nel territorio del XVIII
Municipio e che persegue finalità esclusivamente di solidarietà
sociale.
Un piccolo gruppo di ragazzi disabili, affiancato da due operatori, ha provveduto
alla risistemazione del parco, rendendolo accogliente e pronto a ricevere
un folto numero di persone che si sono ritrovate in un primo pomeriggio assolato
e caldo, ricevuto dalle note della Banda Musicale del Corpo della Polizia
Municipale che hanno allietato l’attesa della cerimonia ufficiale di
inaugurazione di un cippo marmoreo, con apposta una targa in memoria di Melvin
Jones, in sostituzione della precedente, asportata da ignoti vandali.
Percorrendo graziosi vialetti ombrosi e curatissimi, i presenti si sono poi
spostati verso il centro del parco dove, tra attrezzature appositamente studiate
per bambini, un gruppo di giovani, truccati da clown, intrattenevano i più
piccoli con giochi e trucchetti vari. Corroborati nel corpo da un abbondante
buffet, i partecipanti all’incontro hanno poi potuto assistere alla
recita a memoria di brani di autori celebri, eseguita da un gruppo di donne
chiamato “persone-libro”, lettrici che imparano a memoria brani
di libri di autori famosi, che amano e vanno in giro a recitarli. Le varie
declamazioni sono state seguite con attenzione e interesse e al termine sono
state accolte da applausi e complimenti unanimi e convinti.
L’ultima parte dell’incontro è stata dedicata alla consegna,
da parte del Presidente Mele, di “Borse di lavoro” alle persone
che si erano impegnate nell’attività di giardinaggio, con risultati
degni di lode. Sono seguiti vari interventi svolti da personalità lionistiche
e amministrative presenti e che si elencano di seguito, chiedendo venia per
eventuali non volute omissioni. Hanno onorato l’incontro con la loro
presenza il Governatore distrettuale Giampiero Peddis, i Vice governatori
Anselmi, Fuduli e Paolini, il Presidente di Circoscrizione Vecchione e molti
officers distrettuali.
Era presente anche un folto gruppo di Soci del Club Aurelium con le loro consorti.
Le autorità amministrative erano rappresentate dall’assessore
all’ambiente del comune di Roma Fabio De Lillo, dal consigliere provinciale
Danilo Amelina, dal Presidente del XVIII Municipio Daniele Giannini e dagli
assessori Vittorio Rapisarda e Patrizio Veronelli.
Mentre le varie personalità si avvicendavano al microfono sotto lo
sguardo giustamente soddisfatto del nostro Presidente Mele, al cui lodevole
impegno, assecondato dal suo team, si deve l’iniziativa e la riuscita
della Prima Festa della Solidarietà e della quale ci si augura un puntuale
prosieguo, a chi scrive sono tornate alla memoria alcune delle moltissime
attività svolte a favore di associazioni e sodalizi operanti nel territorio
del XVIII Municipio quali, ad esempio, il pulmino alla “Cooperativa
Sociale Eureka” per il trasporto di anziani fragili; due defibrillatori,
ai quali va aggiunto quello donato oggi; la realizzazione di una sala multimediale
per disabili; la donazione di dieci personal computer a favore dei vari Centri
anziani operanti nella zona; la fornitura, senza limiti di tempo, di generi
alimentari alla Casa Famiglia “Valle Aurelia” che accoglie minori
affidati dall’autorità giudiziaria in attesa che possano essere
risolte difficili situazioni familiari e alla quale ogni anno il club Aurelium
destina un contributo in danaro; un prefabbricato installato all’interno
del mercato rionale del luogo e posto a disposizione della Croce Rossa Italiana
quale locale per il pronto intervento sanitario; l’organizzazione di
un incontro interclub con i presidi e i professori delle scuole superiori
del XVIII Municipio su problematiche giovanili; la stesura di un quaderno
sul rumore, dedicato agli alunni delle scuole elementari.
E mentre la gente sciamava verso l’uscita, lasciando malvolentieri quel
luogo pieno di allegria e di frescura per tornare ad immergersi nella asfissiante
calura di una città che si stava animando per il rientro dei pendolari
della domenica, mi sono sorpreso a pensare che il primo decennio della collaborazione
del nostro club Aurelium con i responsabili della politica e dell’amministrazione
locali non può che lasciarci soddisfatti, proprio perché ritengo
che, almeno in questa realtà, abbiamo preso “…coscienza
delle necessità della società che ci circonda e nella quale
viviamo, talvolta anche in maniera disattenta.”
Roma - Parco” Melvin Jones” 13 Giugno 2010
E’ trascorso un anno.
E’ trascorso un anno da quella sera in cui, con mani tremanti e tanta
emozione, ricevevi dal Presidente uscente la Campana e il Martelletto, i simboli
tangibili di una carica che ti poneva al vertice di un gruppo di persone animate,
come te, da spirito di servizio nei confronti del prossimo.
Quello stesso gruppo di persone amiche che ti aveva scelto per affidarti il
compito di interpretare al meglio le finalità che le tiene unite, disegnando
proposte e iniziative, indicando concrete realizzazioni, dare ancora più
prestigio ad un Club che di prestigio ne ha da vendere.
Adesso questi stessi oggetti pieni di simbolismo stanno per lasciare le tue
mani per essere raccolti da altre mani, altrettanto tremanti, di un amico
che ti succederà nelle tue attribuzioni e animato dagli stessi propositi
che albergavano nella tua mente. Questo è il punto: sei riuscito ad
operare in maniera tale da essere soddisfatto di te stesso e ad aver risposto
alla fiducia che ti era stata accordata un anno prima?
Nei pochi secondi che il Cerimoniere dedica alla formula di rito che preannuncia
lo scambio delle consegne, l’intera annata si srotola nella tua mente
e la rivivi totalmente e con partecipazione piena, come un film velocissimo
del quale riesci però a bloccare alcuni “ferma immagine”
riferiti agli episodi più salienti e importanti della tua annata. Episodi
talvolta anche non positivi perché, lo devi riconoscere, non sono mancate
incomprensioni e critiche che ti hanno fatto male, specialmente se erano da
ricollegare a tuoi momenti di stanchezza e che ti hanno fatto temere di vedere
scossa la fiducia che il Club aveva riposto in te.
Qualche ora addietro ti stavi allacciando la cravatta nera e, davanti allo
specchio, già stavi pensando a questo momento e non eri sicuro che
saresti riuscito a tener ferma la voce quando dal microfono avresti pronunciato
il tuo saluto di congedo. Ma a far tremare la tua voce non sarebbe stato il
giusto orgoglio con il quale avresti elencato le tappe più importanti
e significative della tua annata: in definitiva questo è quanto ci
si aspettava da te.
Sarebbe stata un’altra cosa: cercare e trovare negli occhi che tutti
i presenti avranno fissi verso di te lo stesso affetto che un anno prima si
rivestiva di incoraggiamento e di augurio e che oggi vorresti assumesse l’aspetto
del consenso e del ringraziamento.
E’ andata proprio così. E per questo ti sei commosso. Ma ora
che stai consegnando al nuovo Presidente i simboli dell’autorità
le tue mani non tremano. Sono ferme e lo sono perché debbono infondere
coraggio e fiducia all’amico che dovrà percorrere lo stesso tragitto
al quale tu stasera hai posto fine. E di cui devi essere orgoglioso perché
anche se esso rappresenta soltanto un breve tratto del lungo cammino di una
Associazione che si è messa in marcia nel lontano 1917, nella galleria
dei Presidenti dei Lions Club rimarrà vivo il ricordo del tuo contributo,
così come accadrà per il nuovo Presidente, al quale stai per
consegnare la Campana. Non molto spesso ci si sofferma a riflettere sulla
natura e la funzione di un Lions Club. Esso è la base, la cellula fondamentale
dell’organizzazione lionistica e, quindi, nella sua articolazione territoriale
la spina dorsale dell’Associazione. L’asse portante, la vita stessa
dell’Associazione sono i Clubs, dove si realizza il contatto con la
società con la quale e nella quale intende servire, percependone le
esigenze, le aspirazioni, i bisogni attraverso il dipanarsi della vita quotidiana,
concretamente, così come può accadere soltanto grazie alla sensibilità
di persone che, volontariamente, proponendosi come Lions, hanno voluto porre
a disposizione della società tempo e denaro, ma soprattutto intelletto
e amore. Persone che, raggiunti altissimi traguardi sul piano professionale,
privato o pubblico, e gratificate da non pochi riconoscimenti, non rincorrono
attestati e promozioni, ma unicamente la gioia di alleviare un dolore, di
suscitare un sorriso, di infondere una speranza.
Se questo è un Club Lions, ne consegue che il suo Presidente ne è
l’organo sia di propulsione ed iniziativa che di coordinamento dei contributi
di idee e proposte che via via vengono rappresentate.
Caro neo Presidente, sono trascorsi pochi mesi dalla tua elezione e, poiché
conosciamo la tua preparazione lionistica, quanto affermato prima non ti sorprende.
Per questo il tempo trascorso fino a oggi ti ha visto impegnato nel disegnare
quello che ritieni possa essere il programma delle attività del nostro
Club, nel solco della tradizione che lo contraddistingue, per la cui realizzazione
chiamerai a collaborare tutti i soci e le loro Signore con contributi di idee,
di pareri e, soprattutto, di partecipazione alla vita associativa. Quali collaboratori
più vicini potrai, come i tuoi predecessori, contare sul totale impegno
professionale dei tre soci che l’Assemblea, accogliendo i tuoi desideri,
ti ha voluto affiancare.
Ma, soprattutto, potrai fare affidamento sulla tua dolce consorte, la quale
ti accompagnerà passo passo in questo impegno che si presenta come
un percorso foriero di gradite soddisfazioni ma, perché nasconderlo,
anche di qualche contrarietà. E allora troverai accanto a te la pazienza,
l’intuito, la riflessività, i consigli della compagna della tua
vita e vedrai che l’ostacolo non ti sembrerà più insormontabile.
Il tuo discorso programmatico costituirà l’impegno non soltanto
tuo, ma di tutto il Club, poiché sei assolutamente convinto che indicando
i temi da trattare, gli incontri da svolgere, i services da realizzare hai
interpretato fedelmente le aspettative dei soci che hanno riposto in te fiducia
e affetto. L’attenzione verso quella parte di umanità che soffre,
la riflessione su temi che appassionano la società nella quale viviamo,
l’ampliamento del nostro bagaglio di conoscenze in campi normalmente
non praticati nella nostra vita professionale, la migliore visibilità
possibile sul territorio collaborando con le istituzioni nella loro attività
di servizio rivolta al sociale e alla popolazione più bisognosa: saranno
questi i cardini sui quali chiamerai il Club a muoversi. E non mancheranno
anche momenti di vita spensierata, che forniranno a ciascuno di noi l’occasione
di conoscerci anche in maglietta e jeans e non soltanto in cravatta nera!
Buon lavoro a te, Presidente! E anche a ciascuno di noi.
Roma, 2 luglio 2004
P.S.: Come risulta dalla data, questo articolo è stato scritto all’inizio
della presidenza di Dino Manzaro e successivamente inserito nel suo “Diario
di bordo”. Tuttavia presenta ancora tutta la sua attualità e,
pertanto, lo ripropongo all’attenzione di tutti i lettori. In special
modo in un identico momento della nostra vita associativa.
Caro Presidente, ti sono veramente grato di avermi designato
quale coordinatore di un comitato operativo, anche se mi sono reso da subito
conto che l’argomento assegnato alla nostra attenzione appariva estremamente
delicato.
Delicato perché non soltanto di massima e palpitante attualità,
ma anche perché destinato a toccare in ognuno di noi sentimenti e convinzioni
che non desidero definire contrapposti, ma sicuramente non sempre collimanti.
Per questo mi sforzerò di trattarlo da una visuale la più obiettiva
possibile, concedendo nulla o poco - almeno così spero - a valutazioni
personali.
Credo che prima di tutto occorra dare un rapidissimo sguardo a quella che
possiamo definire la genesi storico-politica del fenomeno “immigrazione”.
Ovviamente qui si parla di immigrazione extracomunitaria. Perché popolazioni
del cosiddetto Terzo o Quarto mondo sentono oggi irrefrenabile il desiderio
di lasciare le loro terre e di approdare nel mondo industrializzato e, da
noi definito, civilizzato? Quali sono queste popolazioni?.
Sarà un caso - ma forse non lo è! - ma si tratta, per lo più,
di popolazioni che per decenni - in qualche caso per secoli - hanno subìto
dominazioni coloniali da parte proprio del mondo occidentale in senso lato,
europeo in particolare. Dobbiamo, nostro malgrado, riconoscere che quasi tutti
i Paesi che hanno avuto un passato di colonialismo attivo hanno interpretato
e praticato nella maniera più conveniente alle proprie finalità
politiche ed economiche il loro ruolo di colonizzatori, esorcizzando e rifiutando,
almeno fino alla conclusione del secondo conflitto mondiale, la eventualità
che la loro permanenza in altri Paesi potesse avere caratteristiche di ciclo
storico e quindi terminare. Quelle finalità e questo convincimento,
uniti spesso all’altro, più deleterio, di considerare le popolazioni
dominate razze inferiori, hanno fatto sì che mentre da un lato il Paese
dominato rappresentava un serbatoio per soddisfare esigenze economiche (materie
prime, braccia a basso costo, etc.) e politiche (reclutamento militare), dall’altro
lato tenue o addirittura inconsistente si mostrasse la volontà di contribuire
alla sua elevazione sociale.
Già sento serpeggiare tra i presenti reazioni di dissenso, specialmente
in chi ha avuto esperienze di vita in Paesi del Continente africano. Tengo
però a sottolineare che non intendo assolutamente sollevare indici
accusatori verso chicchessia: anzi, sicuramente il nostro Paese nella classifica
delle nazioni miopi non occupa il primo posto e neppure è tra i primi.
Ma ciò non vuol dire che, nella sua complessità, il fenomeno
non abbia riscontri storici obiettivi. E quando parlo di elevazione sociale
intendo riferirmi non soltanto a opere che tale natura rivestono (case, ospedali,
scuole, fabbriche, strade e così via), ma anche - e, oserei dire, soprattutto
- alla formazione di una classe dirigente autoctona alla quale affidare, durante
e dopo la dominazione, il governo amministrativo del Paese.
Sicuramente ciò ha rappresentato il lato più negativo al quale
si possono far risalire, in massima parte, le difficoltà che oggi angustiano
i paesi sottosviluppati: una fabbrica, una strada, un ospedale si possono
realizzare in un breve numero di anni (non in Italia!); per formare una classe
dirigente molte volte non basta una generazione. Ecco allora all’indomani
della conseguita o conquistata indipendenza (assai spesso con grande spargimento
di sangue e fomentazione di odii insanabili), abbiamo visto, accanto a scene
di profonda miseria e di inconcepibile abbandono, venire alla ribalta figure
losche, prive di scrupoli, sanguinarie le quali, muovendosi in un tessuto
politico-sociale pressoché inesistente e con la complicità degli
antichi dominatori, l’hanno fatta da padroni.
Non cito nomi perché rischierei di provocare incidenti diplomatici.
Ma essi sono presenti alla memoria vostra e mia. La nostra cultura (nostra
in senso lato) fondamentalmente cristiana e quindi votata al perdono - specialmente
nella parte che recita “rimetti a noi i nostri debiti”!!! -
non poteva rimanere insensibile di fronte allo spettacolo offertoci quotidianamente
dall’informazione.
Ecco quindi la corsa all’aiuto ai bisognosi. Ma poiché la politica
dei governanti ha bisogno anche di spettacolo, questo poteva essere garantito
dalla visione di navi ed aerei stracolmi di viveri e medicinali: beni senz’altro
utili. Ma un po’ meno pieni di interventi più mirati e logici,
che non lasciano un segno immediato. Senza contare che talvolta si è
trattato di cose delle quali ci si voleva disfare! Voglio dire che se la nave
che partiva per l’Africa fosse stata riempita per
metà di viveri e per l’altra metà di attrezzature destinate
a procurarsi autonomamente nel tempo i viveri stessi, sicuramente oggi qui
parleremmo d’altro. E non si venga a dire che questo avrebbe avuto valore
di confetti dati ai porci: l’intelligenza e la volontà, se opportunamente
educate e sviluppate, non sono patrimonio esclusivo di una pelle colorata
o meno.
D’altronde che simili atteggiamenti di soccorso rispondano più
ad esigenze politiche che sociali (o quanto meno le prime sono più
sentite delle seconde) lo dimostra il fatto che proprio in questi giorni il
nostro Ministero degli Esteri, sempre prodigo di pubblico denaro in ogni angolo
del mondo, improvvisamente, sotto la spinta degli avvenimenti dell’Est
europeo, ha più che dimezzato il proprio contributo ai progetti dell’ONU
per dirottarlo al finanziamento di futuri “Piani Marhall” destinati
ai Paesi ex comunisti.
E non parliamo poi delle somme ingenti erogate senza controllo alcuno e che
sono servite in massima parte ad armare le bande dei non sullodati personaggi
e ad impinguare i conti svizzeri dei personaggi medesimi e, sotto forma di
tangenti, di quelli che si rendevano complici della destinazione di morte.A
questo punto come è possibile pensare di frenare l’umano legittimo
desiderio di popolazioni povere da sempre di tentare di dare una svolta alla
loro condizione, muovendo i loro passi verso una società della quale
conoscono tutto, ma più di tutto l’opulenza?
Il nostro pianeta, che ha ormai assunto le caratteristiche di un villaggio
globale, non ha più segreti per nessuno: radio, televisione, cinema,
stampa, rapidità negli spostamenti ne sono state, e ne sono, cause
propulsive. E l’Italia? Anche il nostro Paese ha conosciuto, agli inizi
del secolo, il fenomeno della emigrazione; certamente alla base non vi erano
tutte quelle ragioni che prima ho elencato, ma alcune sicuramente si.
Prima fra tutte l’estrema povertà nella quale versavano le popolazioni
del nostro Sud, alla quale aggiungere la conoscenza, sia pure indiretta e
sfumata, dell’esistenza di paesi nei quali almeno un lavoro era possibile
trovarlo. E poi, non dobbiamo vergognarci di ammetterlo, la presenza di una
classe dirigente estranea, imposta a seguito dell’unità nazionale,
da una classe politica che dei problemi del Mezzogiorno aveva scarsa e preconcetta
conoscenza. Ma ecco che il nostro contributo alla valorizzazione dei nuovi
mondi (stimato tra i cinque e i sei milioni di persone)
dopo il 1950 si esaurisce - anche se continua all’interno del nostro
Paese - e inizia il flusso inverso.
Esaminate, sia pure sommariamente, le motivazioni che spingono le popolazioni
del Terzo mondo ad emigrare, ora dobbiamo chiederci perché prediligono
il nostro Paese o almeno così sembra dal nostro osservatorio di interessati.
In parte può accadere perché il nostro livello economico e il
nostro tenore di vita rappresentano traguardi ambitissimi per molti popoli,
e non soltanto del Terzo mondo.
Ma solo in parte, perché se pensiamo che il reddito pro-capite del
nostro Paese è almeno venti volte più elevato di quello dei
Paesi di provenienza degli immigrati, uno spostamento che obbedisse soltanto
a motivazioni economiche assumerebbe dimensioni bibliche.Evidentemente vi
è dell’altro. Non è assolutamente il caso di soffermarci
sulla figura del rifugiato politico: questa dà maggiori preoccupazioni,
anche se molto limitate, più sul piano della qualità che della
quantità.
E’ che noi non possiamo completamente seppellire la memoria storica
rappresentata dalla nostra emigrazione: quanti emigranti o loro diretti immediati
discendenti sono ancora vivi in Italia a ricordare a se stessi e agli altri
le sofferenze patite? Come pure la diffusa cultura cattolica che si concretizza
nel rispetto e nell’aiuto ai diseredati - e qui recupero, pertinentemente,
la seconda parte della preghiera: “come noi li rimettiamo ai nostri
debitori” -.
Ancora: esiste una giustificazione socio-economica secondo la quale la immigrazione
avviene in pratica solo nell’interesse dei Paesi di immigrazione, afferma
Massimo Livi Bacci, ordinario di demografia a Firenze. E questo perché
l’economia dei paesi sviluppati è al settimo anno di espansione,
la disoccupazione sta decrescendo, le popolazioni invecchiano rapidamente,
la domanda di lavoro nei servizi sarà probabilmente crescente.
Tutto vero questo? Riconosco di non essere sufficientemente preparato per
una risposta.
Ma una cosa è certa: qualora fosse vero, il nostro Paese dovrebbe allora
munirsi di adeguati strumenti per regolamentare questo fenomeno.
Oggi nessuno strumento esiste se non quello rappresentato dall’art.142
del Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza del 18 giugno 1931: dico
bene, 1931, più vecchio di me!!! a parte la necessità di superare
pregiudizi nazionalistici e difficoltà di lingua e di frontiera, oggi
assolutamente anacronistici, occorre anche realizzare un coordinamento con
le legislazioni degli altri Paesi, europei e non, che regolamentano la materia.
La legge 943 del 1986, destinata a sanare situazioni di illegalità
è servita a poco o niente: anzi si può affermare che è
servita più ai datori di lavoro per sanare, senza penalità,
esposizioni contributive. Non è servita perché contemplava la
coda del problema e non il suo manifestarsi e prendere piede. Agli immigrati
ha fornito l’occasione, invece, di suonare una specie di tam-tam
sintonizzato su lunghezze d’onda interessate per far conoscere che in
Italia era possibile entrare e rimanervi a proprio piacimento.
Questo atteggiamento delle nostre autorità non significa affatto democrazia:
perché allora dovremmo dire che la Svezia, dove chi è entrato
come studente e viene trovato a fare altro senza permesso viene gentilmente
ma fermamente accompagnato alla frontiera, dovremmo dire che la Svezia non
è un paese democratico.Tale stato di cose esistente in Italia e cioè
di non politica, può senz’altro fungere da terreno di coltura
per situazioni negative: accattonaggio, abusivismo commerciale, vagabondaggio,
minicriminalità, prostituzione, spaccio di droga e così via.
Però, lasciatemelo dire, non radicalizziamo troppo il problema. Chi
entra in Italia non necessariamente, perché non è di pelle bianca,
porta con sé un bagaglio di criminalità latente. Anzi, se la
cultura costituisce un insito deterrente alla manifestazione di atteggiamenti
contrari alla legge, dovrebbe rassicurarci, almeno in parte, apprendere che
uno studio condotto dall’ISPES ha rilevato che l’81
per cento degli immigrati è in possesso di un grado di istruzione che
va dalla media alla laurea.
Soltanto il 4 per cento è analfabeta. Veleggiamo su valori nazionali!
Certo per arrivare, come fa il Partito comunista (o quasi) italiano, nella
affannosa ricerca di nuovi proseliti, a ipotizzare una società plurietnica,
ce ne vuole; però non mi convince neppure l’affermazione di Francesco
Alberoni secondo il quale la nostra emigrazione era tutt’altra cosa,
perché i nostri nonni erano bianchi e cattolici e questi invece sono
di colore, di religione islamica, faranno i lavori peggiori, accumuleranno
frustrazioni e risentimenti.
Forse abbiamo dimenticato che Al Capone e soci avevano un cognome italiano
e che noi abbiamo esportato braccia operose e menti geniali, nel bene e nel
male.
Però a me piace chiudere questo mio intervento non in chiave polemica,
bensì ricordando, a me stesso per primo, che all’occhiello porto
un distintivo di appartenenza ad una associazione internazionale che ha, nel
suo codice etico, una proposizione, la sesta, che mi impone di “Essere
solidale con il prossimo mediante l’aiuto ai deboli, il soccorso ai
bisognosi, la simpatia ai sofferenti.”.
Intervento svolto alla Pergola dell’Hotel Hilton la sera del 1°
Giugno 1990
La prima reazione in me suscitata dalla lettura del tema
congressuale proposto è stata di grande meraviglia, considerando che,
assegnando ai cinque relatori ufficiali appena sessanta minuti alla trattazione
di un tema così arduo e impegnativo, si sarebbe dovuto fare affidamento
su oratori preparati e in possesso di poteri di sintesi talmente elevati da
consentire loro, in un breve lasso di tempo, di illustrare e commentare le
varie culture presenti e, perché no?, passate, vagliandole e giudicandole
al fine di formulare una proposta di scelta verso “…il modello
più idoneo per una società moderna, globalizzata, in continuo
e veloce divenire.” Comunque il tema mi è apparso subito stimolante
e, quindi, mi accingo a tentare l’avventura di una riflessione, certamente
non all’altezza di tanti dotti interlocutori.
Tuttavia ci provo, dopo aver dedicato un po’ del mio tempo di pensionato
a letture, consultazioni e anche a qualche lontano ricordo che mi ha fatto
tornare alla mente le sudate carte di Nicola Abbagnano e di Paolo Lamanna.
Cosa si deve intendere per cultura? La risposta data dal mondo ellenico era
la conoscenza di se stesso e della comunità in cui si vive e ci si
realizza, ottenuta attraverso le buone arti della poesia, dell’eloquenza
e della filosofia, così come affermavano Platone e Aristotele. Concetto
che peraltro escludeva qualsiasi attività utilitaria, affidata a schiavi
e servi e, quindi, elitario ed aristocratico.
Concetto in parte ripreso nel Medioevo per preparare l’uomo ai suoi
doveri migliori e alla vita ultramondana, utilizzando principalmente come
strumento la filosofia, ritenuta idonea allo scopo, al punto da potersi sintetizzare
nel detto “philosophia ancilla theologiae”.
Il carattere aristocratico della cultura, mantenuto ancora durante il Rinascimento,
venne posto in discussione dall’Illuminismo e l’Enciclopedia francese
fu la massima espressione della tendenza di ritenere la cultura non già
patrimonio dei dotti, ma rinnovamento della vita sociale e individuale in
un ideale di universalità che, per noi moderni, costituisce l’aspetto
essenziale della cultura. Giunti a questo punto con la brevissima disamina
storica, cerchiamo di individuare quale tipo di cultura dovremmo oggi privilegiare,
tentando così di rispondere al quesito posto nel tema congressuale.Una
risposta auspicabile è nella formazione armonica ed equilibrata dell’uomo
come tale, la più completa possibile, autenticamente aperta - in altre
parole, umana - che si richiami in qualche modo alla classica “paideia”
greca.
Non va dimenticato, comunque, che la cultura comprende anche il comportamento
che l’individuo acquisisce quale membro di una società, perché
la cultura è patrimonio di una società e non l’elaborazione
personale ed esclusiva di individui. E lo è al punto tale che qualche
studioso fa coincidere i due termini di società e cultura.
Infatti, alla base di qualsiasi cultura esistono quelle che gli etnologi chiamano
“idee generali” e cioè credenze, capacità, abitudini,
modi di agire e tutto quanto altro ancora contribuisce a determinare un ambiente
che preesiste all’individuo e lo condiziona. E in tale ambito è
bene ricordare che una caratteristica della cultura è quella di essere
transgenerazionale e cioè la possibilità di trasmettere, all’interno
della società, i propri modelli culturali: operazione indispensabile,
perché una cultura è viva e formativa soltanto se, diretta verso
l’avvenire, rimane ancorata al passato.
Mi sia permessa una orgogliosa autocitazione. Nella prima pagina del libro
dedicato al 40° anniversario del Club Aurelium, al quale ho conferito
qualche contributo, è possibile leggere la frase “Per andare
avanti, qualche volta bisogna guardare indietro.” E allora andiamo avanti.
Abbiamo appena auspicato per l’uomo una formazione armonica ed equilibrata,
autenticamente aperta. Avremo, così, un uomo colto (inteso nel termine
fin qui esposto), dallo spirito aperto e libero, pronto a comprendere idee
e credenze altrui, anche quando non può accettarle, in quanto non ne
riconosce la validità. Comprenderà anche l’esistenza di
quelle “idee generali” proprie e altrui delle quali prima si è
detto, che non potrà né imporre arbitrariamente, né accettare
con passività in forma di ideologie istituzionalizzate, ma che invece
dovrà adoperarsi acciocché si formino in modo autonomo e continuamente
commisurate alle situazioni reali. Prego di voler tenere bene a mente questo
passaggio, che troverà spazio anche in seguito. Però, prima
tentiamo di rispondere al quesito tematico e cioè dibattiamo sulle
culture, perché alla fine si possa passare alla scelta del “modello
più idoneo per una società moderna, globalizzata, in continuo
veloce divenire”.
Ma è possibile conseguire, sia pure in via di ipotesi di scuola, un
simile risultato? a quanto detto prima circa la esistenza di “idee generali”
e originali alla base di qualsiasi cultura, occorre aggiungere quello che
affermava il filosofo Ernst Cassirer in tema di sviluppo antropologico: “L’uomo
non vive in un universo puramente fisico, bensì in un universo simbolico,
dove lingua, mito, arte e religione sono i vari fili che compongono il tessuto
simbolico, il complicato tessuto dell’esperienza umana”. E un
modello culturale è tanto più efficace quanto più, in
assenza di alternative, risulta interiorizzato e trasformato in automatismo
inconscio.
A questo punto, dobbiamo inevitabilmente prendere atto che nel mondo abitato
esistono varie culture, tutte nate, sviluppate, incardinate, interiorizzate
e trasmesse in modo autonomo.
Ma altrettanto inevitabilmente dovremmo forse prendere atto che sono ugualmente
vissute e praticate in forma ermeticamente chiusa al punto tale che non se
ne possa ipotizzare la loro cancellazione e sostituzione con altra? In una
società moderna e globalizzata è ancora possibile accettare
questa immagine? Personalmente ritengo che una cultura, intesa così
come si è tentato di definire in precedenza, non possa e non debba
essere oggetto di violenza tendente a modificarla o, addirittura, ad eliminarla
sostituendola con altra. Sarebbe come tentare di introdursi nel DNa di un
individuo per modificarlo a proprio piacimento, adducendo motivi di miglioramento.
Miglioramento, ma a giudizio di chi? Tuttavia non possiamo ignorare una circostanza
di enorme portata e cioè quel fenomeno che va sotto il nome di globalizzazione
che, specialmente sotto la spinta inarrestabile dei nuovi media della comunicazione,
ha scardinato quella chiusura ermetica dalla quale le culture territorialmente
erano avvinte. Quelle formazioni culturali, fino a ieri separate, sono ormai
intrecciate anche al di là delle barriere linguistiche, al punto tale
che ogni popolo è diventato vicino di qualsiasi altro e ciò
che accade in un punto del globo coinvolge con immediatezza l’intera
popolazione mondiale.
E tutto ciò è positivo, specialmente se l’intreccio è
foriero di comune presa di conoscenza e coscienza di problematiche locali
alle quali è possibile porre rimedio soltanto, o più facilmente,
collaborando. Però siamo molto lontani dall’ipotesi di una cultura
unica. Anzi, si tenta di prefigurare qualcosa molto differente.
Recentemente ho letto su un quotidiano un interessante articolo di uno scrittore
tedesco nel quale si affermava che la globalizzazione si presenta non tanto
come “…integrazione di contesti di azione e di esperienza al di
là dei confini degli stati nazionali”, come in definitiva dovrebbe
essere. E per ora mi fermo qui nella citazione e dichiaro che condivido in
pieno l’affermazione circa quello che la globalizzazione dovrebbe rappresentare,
anche in omaggio a quanto prima chiarito in tema di validità e difesa
non preconcetta delle culture. A questo punto mi sorge un dubbio e mi scuso
nell’ipotizzare quanto appresso. Probabilmente nel proporre il tema
congressuale, più che alle culture si voleva far riferimento alle civiltà.
Se così è, allora il discorso è alquanto diverso e un
po’ scivoloso, anche perché, sia pure in forma problematica,
nel tema se ne auspica il modello più idoneo e, quindi, lo augura unico
per tutti. Comunque, anche così ipotizzato, non è che dibattere
sulle culture vuol dire ignorare le civiltà, perché la civiltà,
nella evoluzione della cultura di una società, ne costituisce l’ultimo
stadio. Secondo il pensiero filosofico e sociologico tedesco di fine ‘800,
la civiltà è una fase della stessa cultura, cui fa seguito secondo
uno schema di sviluppo ben definito. Però, conseguita questa fase di
sviluppo, si pone una domanda: cosa si intende per civiltà compiuta
e, quindi, da imitare e, addirittura, da imporre? Un patrimonio fondato prevalentemente
sulla cultura tecnica? Oppure su quella intellettuale? Oppure morale?
E’ evidente che tutti questi elementi concorrono insieme a formare un
uomo veramente civile, anche se a qualcuno è sembrato opportuno di
poter sostenere che la civiltà è tanto più compiuta quanto
più alti sono il complesso tecnologico e materiale, nonché la
relativa attrezzatura, oppure i prodotti intellettuali di cui dispone una
società. Se questo fosse vero, riferendoci ai prodotti intellettuali,
l’Italia, con il suo patrimonio artistico e culturale, dovrebbe considerarsi
il Paese più civile del mondo! Per contro, altri Paesi dovrebbero essere
additati come modello di alta civiltà da privilegiare perché
in possesso di tecnologie e attrezzature incomparabili, anche se poi magari
praticano ancora la segregazione razziale e la pena di morte.
Forse sarebbe auspicabile, perché necessario, un virtuoso mix di tutti
i patrimoni sopra citati. Purtroppo la globalizzazione si presenta (e qui
riprendo la citazione interrotta poco prima)
“…come la competizione…per il potere di santificazione della
giusta via, il potere di definire cosa è giusto e cosa è sbagliato,
cosa è buono e cosa è cattivo, cosa è rischioso e cosa
è sicuro.
Gli stati che ambiscono a un ruolo egemone (e qui ometto gli stati citati.
N.d.A.) si considerano non soltanto nazioni, ma movimenti morali che additano
la via all’umanità.” E questo dovrebbe essere accettato?
Quale corte giudicante potrebbe d’imperio riconoscersi legittimata ad
esprimere quel giudizio di idoneità cui, stando al quesito congressuale,
sembra auspicabile doversi arrivare? Ma che forse globalizzazione vuol significare
uniformarsi?
Certamente non mancano esempi di uniformità necessitata (vedi la lingua
inglese nel controllo del traffico aereo) o di uniformità auspicata
(vedi le iniziative che attengono alla lotta alla fame e alla povertà
nel mondo). Ma da qui ad auspicare un modello comportamentale unico idoneo
per tutta l’umanità ce ne passa di strada.
Mi piace chiudere queste riflessioni riportando quanto ho potuto leggere in
un box pubblicato a pagina 14 dell’ultimo numero di “Lionismo”.
“La nostra abiura per le graduatorie fra le culture è totale.
Non ci sono apodittiche e generali superiorità. Tuttavia esistono tutele
e principi strettamente connessi con la natura umana e con il progresso universale
la cui compressione fortemente deprime il livello civile e culturale nella
sua complessità.” Affermazioni cui aderisco totalmente e con
entusiasmo.
Tutto ciò da me affermato e chiarito è racchiuso in queste poche
righe, che costituiscono, a mio modesto avviso, il suggello più definitivo
ed efficace che poteva essere posto all’ambizioso e un po’ spericolato
tema congressuale.
Roma, 26 novembre 2006 - Congresso d’autunno - Pomezia Pubblicato sul
n° 3/2007 di “Lionismo”
Caro Dino, come ormai in molte altre circostanze ti ho messo
a parte di alcune mie riflessioni, anche questa volta dovrai sopportarmi e
ti prego di scusarmi.
La settimana che andava dal 25 al 31 agosto sono andato con Cira a trascorrere
alcuni giorni in un agriturismo, nei pressi del lago di Bolsena, dal nome
che era tutto un programma: “Agriturismo Buonumore”! A pochi chilometri
da Acquapendente e con molti dintorni interessanti sia dal punto di vista
turistico che gastronomico, ha consentito a Cira e a me di allontanare da
noi la fatica, anche morale, alla quale abbiamo soggiaciuto per circa due
mesi affrontando la vicenda di Gerano. Ma non è su questo che voglio
intrattenerti.
Il giorno stesso in cui siamo arrivati, nel metterci a tavola per il pranzo,
ci siamo trovati a stretto contatto di gomito con un gruppo di almeno sedici-diciassette
persone, otto delle quali portatrici di handicap più o meno gravi,
assistite dalla ASL RM4 a mezzo di una cooperativa sociale.
Vi erano persone, prevalentemente giovani, completamente raggomitolate dentro
ad una carrozzina; altre che per camminare dovevano essere sostenute e insieme
guidate, perché anche non vedenti; altre ancora dall’aspetto
quasi normale, ma che calzavano un caschetto protettivo in quanto, evidentemente,
soggette a crisi di natura epilettica che avrebbero potuto danneggiarle.
Mi fermo qui, anche perché tutti conosciamo i vari aspetti con i quali
si presentano gli handicap
che possono aggredire una persona. Posso affermare in totale verità
- e devi credermi, perché conosci bene sia Cira che me - che la circostanza
non ci ha assolutamente creato né disagio né curiosità:
la nostra vita si dipana anche attraversando momenti del genere, perché
ad essa loro appartengono e ci accompagnano e ci aiutano a capire quanto dolore
ci circonda e del quale, molte volte, ci rifiutiamo di prendere atto.
Ma quel che ha destato il nostro interesse e la curiosità è
stato l’atteggiamento degli accompagnatori nei confronti delle persone
affidate alle loro cure. Premetto che, tranne una signora di circa cinquant’anni
che, evidentemente, era la responsabile del gruppo, tutti gli altri erano
giovanissimi, tra i venti e i venticinque anni, ragazze e ragazzi. Tra gli
altri un ragazzo nero, con un fisico che non aveva nulla da invidiare a quegli
atleti che si erano esibiti nei Giochi olimpici appena conclusi! La professionalità
mostrata nelle varie situazioni di crisi cui andavano spesso soggette le persone
assistite era tale da lasciare stupiti: precisi e tempestivi, appropriati
e veloci, gli interventi degli assistenti si sono sempre svolti, nella sala
che accoglieva durante i pasti fino a cento persone, con una tale discrezione
da passare quasi inosservati. Comunque senza che mai fossero esternate insofferenze
da parte degli altri ospiti.
Una ragazza, raggomitolata nella sua carrozzina e priva di qualsiasi mobilità
degli arti, veniva imboccata da un ragazzo, il quale accompagnava i suoi gesti
con carezze e baci sul viso dell’assistita per invogliarla a mangiare.
Un’altra ragazza, ogni qualvolta si siedeva a tavola, si sfilava le
scarpe ed era un problema costringerla a reinfilarle; una volta una assistente
ha passato buona parte del pranzo china sotto la tavola nel tentativo di recuperare
le scarpe che, sistematicamente, venivano allontanate con violenza. Quando
un ragazzo venne colto da una crisi isterica con urla e movimenti pericolosi
per sé e per gli altri, non puoi immaginare le cure delle quali divenne
oggetto: carezze e abbracci affettuosi accompagnati da frasi dolcissime modulate
con nenie che probabilmente neppure una madre sarebbe stata in grado di inventare
e cantare.
Ma i momenti più belli erano quelli in cui, nel corso della mattinata
o nel pomeriggio, tutto il gruppo al completo si radunava sotto la chioma
di pini secolari e si intratteneva con giochi e canti, nella calma più
completa, in piena e totale serenità. Evidentemente il canto deve avere
un potere calmante e quelle persone così sfortunate recuperavano moltissimo
della loro naturalità così gravemente offesa, tanto da apparire
non dico normali, ma certamente più lontane dalla loro quotidiana condizione
di malati.
Tutto quanto ti ho narrato, e del quale Cira ed io siamo stati testimoni per
molti giorni, ha suscitato in noi non soltanto grande ammirazione per l’abnegazione
posta in atto dagli assistenti, ma anche grandissima commozione nel vedere
quale legame di affetto si era stabilito tra persone bisognose di ogni genere
di aiuto, anche il più intimo, e persone che stavano dedicando tempo,
intelletto e amore a chi di questo aiuto necessitava.
La nostra commozione ha raggiunto il punto più alto la sera in cui,
dopo la cena, due artisti, con il solo aiuto di chitarre, hanno riproposto
all’ascolto dei presenti tutta una serie di canzoni di Battisti, Venditti,
De Gregorio e altri cantautori di quella generazione, accogliendo anche richieste
da parte del pubblico. Ebbene: un assistito, di circa una una quarantina di
anni, con in testa un caschetto da ciclista e con difficoltà di parola,
è rimasto in piedi fino a quando non è stata accolta la sua
richiesta di sentire la sua canzone preferita. E quando il motivo ha iniziato
ad
uscire dagli altoparlanti, è rimasto in piedi e ha preso ad accompagnare
il motivo ripetendone le stesse parole, ma con un atteggiamento così
ispirato e commosso che mi ha fatto pensare che nella sua mente qualcosa si
stava risvegliando e lo stava riconducendo indietro a rivivere attimi già
vissuti. La stessa sensazione debbono aver provato anche due ragazze assistenti:
si sono avvicinate alla persona con il caschetto giallo, gli hanno circondato
con le braccia la vita e le spalle e il terzetto, così abbracciato,
ha cominciato a dondolarsi come si usa fare tra il pubblico nei concerti di
canzoni.
Ho sentito salirmi alla gola e al naso un groppo pieno di lacrime. Ho guardato
in viso Cira: a lei le lacrime erano già arrivate agli angoli della
bocca. Più tardi, seduti sulla veranda davanti al nostro alloggio,
nel buio più completo ed essendo passata la commozione che ci aveva
scosso, Cira ed io abbiamo cominciato a riflettere a voce alta sull’esperienza
che stavamo vivendo e siamo arrivati a parlare di volontariato, anche del
nostro volontariato di Club e ci siamo chiesti più di una volta se
veramente lo stiamo applicando. Certamente quei ragazzi che stavano assistendo
persone variamente non abili avrebbero ricevuto una mercede. Ma non era quello
il problema: a nessuno di noi viene chiesto esplicitamente di affrontare direttamente
e in prima persona situazioni siffatte. Comunque, che male ci sarebbe? La
domanda sorge quando assistiamo (e leggiamo sulla nostra stampa) ad atteggiamenti
che creano in me - e in molti altri ancora - stupore e sconcerto per la supponenza
e il sussiego con cui si affrontano eternamente, nelle assise più alte
e da personaggi noti da sempre, argomenti vacui e privi di qualsiasi concretezza,
rivolti unicamente a perpetuare una autoreferenzialità dura a morire.
Dove troviamo un afflato di volontariato in simili comportamenti?
E ho ricordato quello che compare nel libro che celebra il quarantennale del
Club, laddove si legge che se vogliamo essere concretamente volontari, occorre
volare a vista, per avere “…una percezione più netta e
precisa….della vita quotidiana …accanto a noi, palpitante di gioie
e di dolori, di colori e di ombre, di lamenti, di odori”. Così
come Cira ed io la stavamo vivendo in un agriturismo dal nome invitante: “Buonumore”!
Paura di sporcarsi le mani? Perché mai?
Ma il lionismo di Melvin Jones non era proprio questo? Anche se oggi lo si
ricorda quasi con supponente distacco qualificandolo assistenziale e caritativo,
ancora “…oggi troppo spesso prediletto da molti Lions….,
umanitario, certamente più semplice e meno faticoso ma che non dà
motivazioni e gratificazioni sufficienti”. Parole pronunciate in un
recente Forum da un nostro Past Governatore Distrettuale, al quale vorrei
chiedere in quale altra iniziativa “non umanitaria”, da lui o
da altri assunta finora nel corso della sua non breve vita lionistica, abbia
trovato motivazioni e gratificazioni, escluso forse l’anno del suo governatorato.
Caro Dino, rileggiamo insieme alcune righe di quel libro che tanto ci ha affaticato,
ma che alla fine ci ha riempito di gioia. “Herman Hesse introduce nella
mente di Narciso il dubbio che forse era più difficile, più
doloroso ma più nobile camminare per i boschi e le strade maestre,
soffrire il sole e la pioggia, la fame e la miseria, come è accaduto
a Boccadoro, anziché, come ha fatto lui, condurre una vita regolata
dalla campana che chiama alla preghiera e pensando che l’uomo è
stato creato per studiare Aristotele e Tommaso d’Aquino”.
Ti saluto con affetto.
Enzo Roma, 9 settembre 2008
Pubblicato sul n° 6/09 di “Lionismo”
1) Puntine d’ago.
Ancora una volta sono tornato a soggiornare presso l’Ospedale S.Pietro
Fatebenefratelli sulla Via Cassia. In questa occasione trattasi di protesi
dell’anca destra. Se non ricordo male, dalla prima volta che vi misi
piede sono trascorsi almeno quattro anni e, pensavo, certamente molte cose
nel frattempo saranno cambiate, anche nel vitto. Pertanto, più con
curiosità che con ansia ho atteso il vassoio contenente il pranzo,
composto invariabilmente da “vitto iposodico, ipocalorico…”
e via di questo ipo-passo, anche ipoquantitativo, e cosa ti trovo nella minestrina?
Puntine d’ago, così come quattro anni orsono. Allora mi sono
chiesto: ma quante tonnellate di queste puntine d’ago furono acquistate
a suo tempo? Quando mai verranno smaltite? Quanti altri ricoveri dovrò
praticare prima di passare, ad esempio, ai peperini?
2) All’olio.
Alcuni dei vari contorni che accompagnano i secondi piatti compaiono sul mini-
menù, appoggiato sul vassoio, con accanto la scritta “all’olio”.
Ho riflettuto su questa espressione e, una volta scoperchiata la pietanza,
più che paragonarla ad una pura e semplice constatazione di una circostanza
inesistente (l’olio), sembrerebbe una vera e propria esortazione a raggiungere
un obbiettivo (All’olio! All’olio!), come lo fu, a suo tempo,
quella garibaldina “A Roma! A Roma!”.
Entrambe hanno avuto identico destino: frustrate e inascoltate.
3) Personale paramedico e ausiliario.
Ascoltando con atteggiamento indifferente il personale paramedico e ausiliario
che il mattino presto invade la tua camera mettendola sottosopra e rivoltando
anche te come un calzino, hai la possibilità di renderti conto di come
la loro vita è organizzata. La squadra composta di giovani, oltre a
chiedere che durante le operazioni la tv della stanza venga sintonizzata su
di una stazione che trasmette musica 24 ore su 24, cosicché tutto viene
portato avanti con urletti, mugolii e contorcimenti vari, inizia a scambiarsi
notizie e previsioni circa la vita più o meno sentimentale che conducono
fuori dell’ospedale, parlando di discoteche, di proposte di incontri,
di conseguenti performance vissute o già in programma e via di seguito.
Il tutto con grande tuo scorno, visti sia l’età che lo stato
di infermità nel quale ti trovi. Altri sono invece gli argomenti trattati
dalla squadra dei meno giovani: ingrugniti, quasi in perpetuo inc…avolati,
parlano sempre dei loro guai familiari, di soldi che non bastano mai, di figli
che ti scappano da tutte le parti, di coniugi fannulloni e distratti al punto
che si meriterebbero un bel paio di corna e via di seguito.
A questo punto ti fai un rapido esame di coscienza, ti consoli e la partita,
per quanto ti riguarda, finisce in parità.
4) Il Socio gentile.
La notizia del ricovero si deve essere sparsa in giro e iniziano ad arrivare
telefonate di solidarietà e di richiesta di notizie e previsioni. La
più gentile e “gradita”, considerati gli orari e le abitudini
ospedaliere, è arrivata una sera alle dieci e quaranta allorquando,
a luci spente, tranne quella notturna, stavi dolcemente scivolando in quel
tratto di sonno che sapevi non sarebbe durato molto: presto sarebbero iniziate
le scampanellate di chiamata, i lamenti, altri rumori di fondo di incerta
provenienza. Il tutto accompagnato dalle sacramentazioni degli infermieri,
distolti dalle loro pennichelle.
Il carissimo Socio, che ringrazio ancora una volta, probabilmente sarà
rimasto anche alquanto perplesso circa il mio stato di salute e, chissà,
avrà formulato anche qualche pensiero funesto, sentendo al telefono
una voce assonnata e deformata da un byte respiratorio. Comunque grazie affettuose.
5) Glicemia.
L’ esame del sangue introduttivo ha segnalato qualche punto di glicemia
oltre il cento; cosicché da quel momento in poi tutti i giorni e per
almeno tre volte si è presentato qualcuno con un ago per pungerti un
polpastrello delle dita di una mano, spillarne una goccia di sangue e procedere
alla misurazione. In capo a tre giorni mi si erano fatte tutte le dita delle
mani; cosicché, all’omaccione che mi stava per infilzare per
l’ennesima volta ho proposto di passare alle dita dei piedi.
Non sto a descrivervi lo sguardo inceneritore del boia che, evidentemente,
non aveva apprezzato la battuta. Allora ho tentato di rifugiarmi in corner
dicendo: “Ma se continua così non potrò più suonare
il pianoforte.” Mai suonato, ma tant’è!
Reazione: “E allora er tamburo che ce sta a fa’?” 6) L’officina.
E’ il giorno dell’intervento, praticato in anestesia locale con
puntura epidurale e, pertanto, con la possibilità di percepire distintamente
voci e rumori. Debbo dire che l’equipe chirurgica è rimasta molto
silenziosa: segno che lavorava insieme da molto tempo e gli inviti del capo
più che essere esplicitati, potevano essere anticipati con tempestività
e sincronia. Comunque i rumori di ferraglia erano molto distinti, come anche
l’evocazione all’uso di strumenti che si addicevano più
ad una officina che ad una sala operatoria: scalpello, sega, martello. Vi
è stato un momento in cui ho potuto prendere coscienza che la protesi
da impiantare era di metallo, considerato il rumore delle martellate alle
quali era sottoposta. Anzi, per la sua installazione i colpi venivano preceduti
da piccoli colpetti, come se venisse presa la mira per non sbagliare il punto
da colpire: tic…tic…TOC! E poi ancora: tic…tic…TOC!
Pur nelle condizioni critiche in cui mi trovavo, un pensiero malvagio ha attraversato
la mia mente: e se adesso il “meccanico” si desse una martellata
sulle dita, cosa succederebbe? Attraverso la canonica mascherina quale parolaccia,
debitamente sterilizzata, potrebbe filtrare?
7) Il pensionato.
Sono ormai trascorsi otto giorni dall’intervento e, passandomi una mano
sul viso, mi sono reso conto del perché qualcuno cominciava a guardarmi
con una certa curiosità. Con la barba lunga e, ahimè!, bianca
stavo somigliando sempre di più ad uno di quei personaggi del neorealismo
di Vittorio De Sica: il classico pensionato bianco e smunto, degno soltanto
di compassionevole attenzione. E neppure tanta.
8) Disputa teologica.
Sono in procinto di essere trasferito alla Fondazione Don Gnocchi, per iniziare
il protocollo della riabilitazione. Però da ormai otto giorni il mio
intestino ancora si rifiuta di fare il suo dovere.
Che fare?
Grande dilemma.
Se porto alla Fondazione Don Gnocchi, il cui fondatore verrà proclamato
Beato il 25 ottobre prossimo, il “materiale” accumulato presso
il San Pietro, quest’ultimo se la prenderà a male?
Potrebbe rivendicarne la proprietà? E il Don Gnocchi approfitterà
dell’occasione per sbandierare con soddisfazione un “bottino”
non suo? Trattandosi di due istituzioni con solide fondamenta religiose, potrebbe
venirne fuori una disputa religiosa. Meglio evitare e “unicuique suum
tribuere”.
Dopo alcune manovre oscure, arriva la conclusione. San Pietro: uscita trionfale,
in tutti i sensi, con ambulanza più leggera, anche spiritualmente.
Don Gnocchi: entrata sorridente e disinvolta, senza pagare dazio per importazioni
non consentite.
9) Noblesse oblige.
Il personale paramedico si distingue da quello ausiliario per il colore della
divisa: tutta bianca per il primo, celestina per il secondo. Ma al momento
della distribuzione del vitto, tutti aggiungono un identico tocco di raffinatezza
per meglio sottolineare l’importanza e la delicatezza della circostanza:
sulla divisa indossano un grembiulone bianco che dal mento scende fino alle
caviglie e, le donne, un vezzoso cappellino bianco con visiera che ad alcune
si ferma alle orecchie, assumendo l’aspetto di un elmetto tedesco; per
altre, vista la mole del fisico e la massa di capelli, tende ad assomigliare
ad un nido di rapace, svuotato e rovesciato. Gli uomini, invece, si annodano
dietro la nuca una bandana bianca, che li fa assomigliare, a scelta, ad un
pirata buono (per via del colore della stoffa) oppure a B. dopo il famoso
impianto tricologico.
10) Puntine d’ago e peperini.
E finalmente sono arrivati i peperini, evocati all’inizio di queste
mie riflessioni: una bella scodella di brodo, nel quale annegava un certo
quantitativo di questa pastina che assomiglia a pallini da caccia di medio
calibro. La posizione scomoda mi consentiva movimenti al rallentatore e, quindi,
il pasto procedeva un po’ a rilento. Cosicché, ad un certo punto
ho potuto verificare, un po’ preoccupato, che la massa di peperini,
che all’inizio era completamente annegata nel brodo, malgrado le cucchiaiate
di prelievo alle quali era stata sottoposta, invece di diminuire aumentava,
ovviamente non di numero bensì di volume, passando dal calibro medio
a quello usato per la caccia grossa, fino a diventare una specie di risotto,
non di riso, ma di peperini.
Tornando indietro con la memoria alle puntine d’ago, mi sono ricordato
che quest’ultime arrivavano annegate e, inalterate, annegate rimanevano,
fino alla loro consumazione finale. Ergo: ignoro, sia per le puntine d’ago
che per i peperini, ingredienti e proprietà organolettiche. Ma una
cosa è sicura: stiamo attenti a non bere troppo dopo aver mangiato
una buona dose di peperini.
Si rischia di vederseli risalire dallo stomaco in su, aumentati del loro volume
e, ansiosi di trovare una via d’uscita, trovarseli nel naso e nelle
orecchie.
11) Carrozzine.
Fino ad un paio di mesi orsono mi chiedevo spesso cosa si potesse provare
rimanendo per
molto tempo seduto in una carrozzina e con la stessa muoversi in lungo e in
largo, ricorrendo a complicate manovre per curvare a destra o a sinistra,
avanzare o retrocedere, chinarsi per allacciarsi una scarpa e via di seguito.
Per non parlare del soddisfacimento di altre esigenze di varia e intuibile
natura. Adesso, a circa un mese dall’intervento questa mia curiosità
è stata ampiamente soddisfatta e, a detta dei fisioterapisti, tra un
paio si settimane potrò abbandonare la carrozzina.
E soltanto ora riesco ad immaginare, anche se non completamente, lo stato
d’animo di quelle persone alle quali la sorte è stata così
matrigna da condannarle per sempre a quella vita privata della completa padronanza
del proprio corpo, in continua dipendenza altrui e nel cuore di un tunnel
del quale, in assenza di qualsiasi barlume di luce, non riusciranno mai a
percepire l’uscita.
Roma, aprile – maggio 2009
Ospedale San Pietro Fatebenefratelli Fondazione Don Carlo Gnocchi
Noi lions siamo dei veri volontari? Il lionismo, così
come è oggi organizzato e funziona, consente a chi si offre di partecipare
a questo impegno opportunità e mezzi per poterlo fare? Cominciamo da
questa seconda considerazione, proposta in tempi recenti da un PDG ai lions
con apposito questionario e alla quale viene data una risposta agghiacciante:
“Il modo di fare lionismo è soddisfacente? Il 60% ha risposto
no. Senti la necessità di rinnovarci? L’80% ha risposto si. La
nostra associazione è complessa e appesantita? La giudica così
il 71%. Non credi che dovremmo rivolgerci verso uno o pochi obiettivi precisi
con una azione unica e coordinata? L’82% ha risposto si. Ci si potrebbe
fermare qui e chiudere baracca e burattini, anche perché sembra serpeggiare,
in alcune persone che fanno opinione, la tendenza ad attribuire ai lions medesimi
la responsabilità di questo grigiore, in quanto invece di privilegiare
l’impegno civico, “Oggi….troppo spesso (essi lions) prediligono
quello umanitario, certamente più semplice e meno faticoso, ma che
non dà motivazioni e gratificazioni sufficienti”.
A parte il fatto che personalmente non scorgo nulla di dequalificante nell’impegno
umanitario; non ci sarebbe invece da chiedersi che se ciò accade la
responsabilità non è da attribuirsi ai club, bensì a
chi incontra difficoltà a trasferire nei club proposte e suggerimenti
che scaturiscono da riunioni o incontri di studio? Ma ce lo siamo chiesto
il perché? Rispondo io con un’altra domanda: ma non è
perché il messaggio che viene lanciato pecca di cripticità,
di inadeguatezza, di fumosità, di autoreferenzialità? Oppure
perché si scontra con “quella che è la qualità
della nostra associazione, che ovviamente deriva dalla qualità delle
persone che ne fanno parte”? Continuando: “non possiamo nascondere
che la debolezza della nostra associazione deriva dal fatto che su 50.000
soci, quelli realmente coinvolti saranno il 5%, il 10%?” Citando la
“formazione”, impietosamente un lions, durante un incontro distrettuale,
ha affermato: “La formazione a mio parere si prefigge scopi impossibili
a raggiungersi”. E poco più avanti, sempre in tema: “un
grande avvocato, un professore universitario, lo vogliamo formare: a me viene
da ridere, scusate, ma che cosa vuoi formare?”. E si è augurato
che venga privilegiata l’informazione, dalla quale potrebbe derivare
anche la formazione. Aggiungo io, immodestamente: invece di sforzarsi a cercare
di “interiorizzare i nostri Scopi”, dedichiamoci a verificare
se nei lions, e in me per primo, si sia presa coscienza e interiorizzato quanto
affermato nel Codice dell’Etica Lionistica. A tutta questa serie di
lamentele riferite, viene risposto proponendo ancora una volta tavole rotonde,
incontri interdistrettuali, “seminari destinati dai club ai nuovi soci”.
Ma mi chiedo: cosa si vuole insegnare ad un nuovo lion, chiunque esso sia
nel mondo della produzione, un professore, un magistrato, un commerciante?
L’organigramma dell’associazione dalla Sede centrale in giù?
Le procedure amministrative o contabili? Il cerimoniale? A cosa serve il Distretto
e il Multidistretto? I nuovi soci devono entrare nel club soltanto se “motivati
e speranzosi”, ma non di dare la scalata alle cariche, interne o esterne
che siano, bensì motivati e speranzosi di realizzare nel concreto il
proprio afflato di volontariato e di adesione agli Scopi del Lionismo. Altrimenti
è meglio lasciarli a casa!
Ancora una domanda: si è mai pensato che chi si affaccia per la prima
volta all’interno dei nostri club possa rimanere perplesso di fronte
a “certe cerimonialità che ci danneggiano”, invece di “concentrare
la comunicazione sulle cose utili e belle che facciamo”? Perché,
riconosciamolo, è proprio dall’eccesso di cerimoniale, di protocollo,
di autoreferenzialità su cui vivono da decenni i “soliti noti”
che molte volte ci sentiamo infastiditi. “Se privilegiassimo invece
la comunicazione delle nostre realizzazioni, non avremmo fatto un grande passo
in avanti?” E allora passiamo dalle parole ai fatti! Occorre coinvolgere
il mondo che ci circonda e nel quale tutti i Lions sono o sono stati operativi:
economia, giustizia, politica, sanità e così via.
Cominciamo a fare politica, vivendo la vita della polis, prendendo coscienza
delle necessità della società che ci circonda e nella quale
viviamo, talvolta anche in maniera disattenta.
Estratto dalla “Lettera aperta agli amici Soci del Lions Club Roma Aurelium”
del 13 febbraio 2009 e pubblicata sulla rivista “The Lion” del
febbraio 2010.
Anche questa mattina, come faccio tutte le settimane dall’agosto
del 2004 e cioè dalla sua morte, mi sono recato al Verano per salutare
mio fratello e restare un po’ con lui per ritornare con la mente a molti
episodi della nostra vita trascorsa insieme. E insieme a mio fratello ricordare
l’amico Rinaldo, non potendolo fare da vicino, riposando lui nella sua
Belluno.
Prima di scendere dall’auto ed entrare nel riquadro che ospita il suo
loculo, mi sono soffermato ad ascoltare l’ultimo movimento della “Pastorale”
di Beethoven, che avevo trovato sull’autoradio mentre ero ancora in
colonna sulla tangenziale. Ma l’ascolto non mi ha impedito di scorgere,
riflessa sullo specchietto retrovisore, l’avanzare lento e insicuro
di una coppia di persone che nel loro incedere si sostenevano a vicenda. E
mentre lui aveva in una mano una grande borsa e con l’altra si appoggiava
al braccio di lei, la donna stringeva al petto un grande fascio di fiori avvolto
in alcuni giornali. Ho atteso che la coppia sopravanzasse la mia auto e che
continuasse a percorrere il viale che si prolungava avanti a me per ancora
un centinaio di metri. Mentre mi sfilavano accanto, ho potuto constatare che,
in effetti, si trattava di due persone molto anziane, con difficoltà
non lievi nel camminare e che, quindi, procedevano lentamente e con molta
cautela, ma non meno decisi nell’affrontare la strada che, evidentemente,
li doveva condurre a salutare qualche caro estinto.
Ho seguito con commozione l’andatura lenta e claudicante della coppia
fin quando la strada, iniziando a scendere, non me li ha tolti dalla vista.
In quei minuti, durante i quali la magica musica di Beethoven volgeva al termine
- e forse proprio sollecitato da questa -, alla mia mente si affollarono pensieri
ed emozioni, ricordi e sensazioni che ognuno di noi, nel corso della propria
vita, raccoglie e custodisce in maniera inconscia e che, come ognuno di noi,
se stimolato, estrae da uno dei tanti cassetti che li hanno conservati con
cura.
Si è affacciata alla mia mente la scena finale di un film di Charlie
Chaplin, di cui non rammento il titolo, nella quale si vedono di spalle il
protagonista ed una ragazza mentre si incamminano a braccetto lungo una strada
della quale non si vede la fine, ma che si presume porti ad un futuro pieno
di amore e di vita. Ebbene, la coppia che amorevolmente si sosteneva a vicenda
e che mi si allontanava dalla vista con la sua andatura lenta e claudicante,
ha richiamato alla mia memoria quella del film e, dopo aver tentato indiscretamente
di insinuarmi nel loro passato e rivivere con essa gli episodi lieti e dolorosi
dei quali era stata protagonista e che, generalmente, si assomigliano per
ognuno di noi, mi sono chiesto perché anche questa coppia, pur se molto
avanti negli anni e visibilmente piena di acciacchi, non la si debba immaginare
ancora serenamente incamminata verso un futuro pieno di vita e d’amore.
Però la lunga dissolvenza quasi cinematografica alla quale mi trovavo
ad assistere e che si concludeva con la progressiva lenta scomparsa delle
due persone dietro il dosso della strada, stava invece assumendo l’aspetto
di una loro uscita dalla vita. E a questo mi stavo ribellando: due persone
che, benché molto avanti negli anni, mostravano con sì grande
evidenza tanto amore sia vicendevolmente tra di loro, sia nei confronti di
qualcuno che ora non c’era più e al quale erano destinati i fiori
che amorevolmente la donna stringeva al petto, non meritavano, almeno nel
mio assurdo desiderio, di uscire da questa vita.
Ovviamente non potevo, inconsciamente, non ricondurre la visione della quale
ero testimone a ciascuno di noi, me per primo, fugaci protagonisti in una
trama teatrale nella quale noi recitiamo soltanto una brevissima parte, ma
della quale non conosciamo né l’inizio né la fine. Ma
la tenerezza che quelle due persone avevano suscitato in me, mi spingeva a
formulare, come dicevo prima, assurdi desideri di un futuro di vita, alla
quale dare e dalla quale ricevere ancora momenti e atti d’amore.
E proprio a questo mi era concesso di assistere, e proprio a questo volgevo
i miei pensieri, mentre la coppia di anziani lentamente scompariva sulla strada
che iniziava la sua discesa. La discesa della loro visione e, emblematicamente,
della loro vita. Come della vita di tutti.
Roma, 8 novembre 2009
Chiesa di Sant’ Anna in Vaticano - Messa in suffragio Soci defunti Pubblicato
sul n° 2/2010 di “Lionismo”
Caro Direttore, alcune sere or sono ho assistito ad una
trasmissione televisiva nella quale era presente, in qualità di ospite
intervistato, il teologo Vito Mancuso, noto sia per le sue numerose pubblicazioni
(cito quelle da me lette: L’anima e il suo destino; La vita autentica;
Disputa su Dio e dintorni, scritta a quattro mani con Corrado Augias), come
pure per i suoi articoli come editorialista di “Repubblica”. Di
tale intervista mi era rimasto impresso un passaggio, nel quale si sottolineava
la circostanza che la famosa regola aurea “Non fare agli altri quello
che non vorresti fosse fatto a te”, nota, sembra, fin dai tempi di Confucio,
possiamo ritrovarla nel Vangelo di Matteo volta in positivo: “Fai agli
altri quello che vorresti fosse fatto a te”. Puoi trovare la frase nel
capitolo “Vari precetti” 7. 12.
Ho preso atto della notizia e quasi l’avevo dimenticata, pur essendo
andato a scovare l’affermazione di Matteo, rileggendo il suo Vangelo.
Senonché, quando ho avuto tra le mani il numero di aprile della rivista
The Lion e mi sono imbattuto a pagina 12 nell’articolo scritto dal nostro
Past Presidente Internazionale Pino Grimaldi, sono rimasto colpito dall’irruenza
con la quale era stato scritto, compattando in poche righe più di mezzo
secolo di lionismo italiano, al solo scopo di dovere, al termine della sua
disamina, constatare con amarezza che “…gli entusiasmi dei neofiti
(che definisce ‘cari estinti’ n.d.r.) non ci siano più”.
E di seguito illustra alcune circostanze probanti. E termina il suo scritto
dolendosi della circostanza che poveri e sofferenti, malgrado tutto, ancora
esistono e noi li lasciamo “…a crogiolarsi (sic!) ovunque in casa
e fuori perché pensiamo che in fondo qualcuno se ne occuperà…”
e che, quindi, possiamo così sanare il rimorso della nostra coscienza.
Questa amara e, per certi versi, fatalistica argomentazione, ha fatto scattare
la molla del ricordo della trasmissione televisiva e del suo contenuto e innanzitutto
sono tornato a leggermi il Codice dell’etica lionistica, e più
precisamente l’ultima proposizione, quella che inizia con le parole
“Essere solidali con il prossimo…”. Poi ho riflettuto sulla
grande lezione che dovremmo trarre dalla trasposizione in positivo della regola
aurea ricordata prima la quale, intesa come etica del dono, ti invita “ad
aiutare chi soffre, perdonare chi ha sbagliato, sollevare chi è caduto”.
Ma che tradotta laicamente nell’alterità, ti invita, anche senza
la visione religiosa di un premio futuro, a vedere nell’altro noi stessi
e quindi al massimo rispetto e solidarietà, nella convinzione che tutti
gli esseri umani vengono al mondo dotati degli stessi diritti e con pari dignità.
Alcuni anni orsono, in un numero dei Quaderni del Lionismo, un past Governatore
scriveva che la presa di coscienza della propria dignità di uomini
da parte di popolazioni da sempre escluse dalla cultura e dal potere, stavano
creando sogni di rivalsa, accompagnati da sempre più frequenti conflitti;
sogni che avrebbero potuto trovare, da parte del resto del mondo, una giustificazione
ricorrendo al concetto di solidarietà, “…un concetto che
trae origine dalla constatazione che l’universo mondo è di tutti
e che tutti i suoi abitanti debbono trovarvi terreno fecondo di vita.”Sembra
troppo temerario allargare il concetto, fino al punto di renderlo universale?
Non sarebbe, invece, bellissimo poter prendere atto che questo valore, insieme
all’amicizia, al rispetto di tutto ciò che è “altro”
e la comprensione, abbia occupato il posto delle crollate conflittuali ideologie?
In ultima analisi, a pensarci bene, non è forse questo quel che si
pretende da noi Lions, da noi stessi che lo abbiamo accettato quando abbiamo
chiesto e ottenuto di entrare a far parte della più grande - attenzione:
dico della più grande e non più numerosa - associazione di servizio
del mondo?
E prima di concludere, mi sia consentito, con un irrispettoso colpo di mano,
di aggiungere ai tre inviti contenuti nella settima esortazione dell’Etica
un quarto: la solidarietà alle istituzioni pubbliche, non raramente
fatte oggetto di attacchi sconsiderati e di vilipendio verbale non accettabili
e non sempre adeguatamente sostenute e ringraziate. Ma, torno a ripetere e
con forza, è il service che ci contraddistingue, che ci rende diversi
e che, se opportunamente reso visibile, può anche stupire.
Nel corso della mia seconda presidenza, 1999-2000, il Club Aurelium ha ospitato,
come conferenziere, il regista Citto Maselli, noto a tutti non soltanto per
le sue opere cinematografiche, ma anche per la sua posizione politica. Prima
del suo intervento ha avuto modo di ascoltare autorevoli voci del nostro Club
e di ricevere informazioni sulla attività nostra e dell’Associazione
in generale. Orbene: il regista Maselli ha iniziato la sua conferenza mostrando
stupore e meraviglia per quanto aveva appreso, dichiarandosi di trovarsi politicamente
spiazzato sul piano della socialità e della solidarietà.
Se ho citato questo episodio non è certamente per avvalorare una nostra
collocazione ideologica, ma soltanto per affermare che valori come la solidarietà,
l’amicizia, il rispetto di tutto ciò che è “altro”,
l’amore, la comprensione, in una parola tutto ciò che preferisce
albergare nel cuorepiuttosto che nel cervello, se manifestato e praticato
con convinzione e coralmente - e noi possiamo farlo! - ci aiuta a dare concreta
attuazione al dettato evangelico riportato da Matteo.
Però vorrei chiudere con le parole di Adam Smith, il campione del liberismo
individuale, colui che affermava che ogni operatore economico agisce sul mercato
mosso esclusivamente dal suo interesse individuale, il fondatore della scienza
economica. Eppure il filosofo scozzese, oltre due secoli e mezzo fa’
scriveva: “Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente
presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe della fortuna
altrui, che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante
che da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla.”
Non è forse questa la perfetta definizione di solidarietà?
Ti saluto con affetto.
Enzo Maggi Lettera inviata 4 maggio 2010
al Direttore di “Lionismo”
Caro Dino, ti è mai capitato di interrogarti sul
perché a certi individui resta tanto difficile prendere atto che ci
sono molte persone che soffrono a causa della miseria che le circonda e che
le opprime? E assieme alla miseria possiamo comprendere anche altri disagi
di natura morale e fisica, come le malattie.
Te lo sei mai chiesto?
Ebbene: a mio parere la colpa è del barbiere. Non intendo riferirmi
al barbiere quale persona che esercita onorevolmente la sua attività
artigianale; bensì alla attività in sé, al suo dipanarsi
ed esplicarsi sia all’interno della bottega che lo vede protagonista,
sia a domicilio.
Mi spiego. Nel lontano 23 giugno 2000, chiudendo il mio intervento di addio
come Presidente dell’Aurelium per lasciare la Campana nelle mani dell’amico
Giorgio Dori, citai alcune righe del libro di Italo Svevo, “La coscienza
di Zeno”, laddove il protagonista Zeno Cosini si sorprendeva pensare
che “Ogni mattina, quando mi destavo, il mondo appariva più grigio
ed io non me ne accorgevo perché tutto restava intonato; non v’era
in quel giorno neppure una pennellata del colore del giorno prima, altrimenti
l’avrei scorta ed il rimpianto m’avrebbe fatto disperare”.
E aggiungevo: per questo motivo quando ogni mattina ci radiamo la barba non
scoppiamo in lacrime davanti allo specchio.
E torniamo ad occuparci del barbiere; o meglio, della sua attività,
alla quale fanno ricorso, prevalentemente, persone che hanno raggiunto elevati
livelli di prestigio e di responsabilità nei più svariati campi,
in special modo riferiti ad attività decisionali nei confronti della
società.
Infatti: come si può immaginare un ministro, un amministratore delegato
di una multinazionale, un politico di fama nazionale “et similia”,
intento il mattino ad insaponarsi il viso, a cercare il rasoio bilama o multilama
(è da escludere quello a mano libera, pena affettate di vario spessore)
ancora valido e magari non trovarlo e ricordarsi poi di procurarselo? Utilizzare
il rasoio elettrico non sempre è consigliabile. Si rischia di lasciarsi
sfuggire qualche peluzzo ribelle, specialmente tra il lobo e la mascella.
E questo non è elegante. Sono tutte azioni minimali, scoccianti, che
fanno perdere tempo e che ti distraggono da altri pensieri ben più
importanti. E allora ricorrono al barbiere di fiducia, o nell’odoroso
“salone”, o nell’intimità del proprio boudoir. Il
figaro li avvolge con delicatezza in un profumato lino, li fa scivolare all’indietro
per meglio posizionare il viso, lo studia con dita esperte per meglio individuare
il verso pilifero ed eventuali vertigini, lo inonda di morbida schiuma che
assomiglia a panna montata e lo fa con delicatezza, usando un pennello più
morbido della schiuma. Di tanto in tanto insiste con un polpastrello per meglio
spandere il sapone e poi passa alla rasatura, che avviene con dolcezza e sapiente
rapidità, non tralasciando una pizzicata alla punta del naso, per meglio
tendere la pelle sottostante, senza danneggiare gli eventuali baffi.
E quando infine tutti i pori del viso sono sollecitati ad espellere tossine
e scorie sotto l’influsso del tovagliolo bollente che, alla maniera
giapponese, lo copre come un sudario, riemergono senza alcuna soluzione di
continuità alla loro realtà quotidiana che torna ad assorbirli
dopo essere rimasti così, senza pensieri, in una specie di soave dormiveglia.
E in questo momento che si pongono davanti allo specchio.
E lo specchio? Quello serve al più per annodarsi la cravatta, per una
fugace toccatina alla capigliatura già sistemata (sempreché
sia presente!) e per compiacersi per il proprio aspetto elegante e tirato.
E il mondo esterno? “…tutto restava intonato; non v’era
neppure una pennellata del colore del giorno prima, altrimenti l’avrei
scorta e il rimpianto m’avrebbe fatto disperare.” Non sono queste
le considerazioni che invece ti sorprendi a fare quando ti metti davanti allo
specchio per la tua quotidiana rasatura. Lo sguardo torvo, ancora assonnato,
scorre il tuo viso sul quale scorgi, con orrore, una ulteriore zampa di gallina
che ti ostini a chiamare “di espressione”; qualche altro peluzzo
tende a scolorirsi; la fronte ha guadagnato altro spazio ai danni dei capelli.
E va bene!
Questa è la vita. Seguendo poi distrattamente il cammino del rasoio,
ti sorprendi a pensare che non è affatto vero che, specchiandoti tutte
le mattine, ti sembra di non essere ancora invecchiato: lo sei e come! E allora
ti viene improvviso e inarrestabile il desiderio di chiederti se il cammino
che è dietro di te si è svolto secondo le tue aspettative, se
hai raggiunto gli obiettivi che ti eri prefissato, se ti sei comportato bene
con gli altri e cosa questi pensano di te.
Questo muto colloquio tra te e lo specchio, che ha tanto il sapore di una
riflessione-confessione, talvolta si chiude con la tacita promessa che fai
a te stesso di più e meglio adoperarti a favore del mondo che ti circonda,
adoperarti in qualsiasi modo possibile, da un semplice sorriso ad un impegno
importante. Non interessano il luogo, le modalità, le persone, le istituzioni:
basta che tu abbia preso coscienza che c’è bisogno del tuo aiuto
e che tu intervenga.
Ma se non ti metti davanti allo specchio per raderti, se non ti rivolgi uno
sguardo indagatore, se non ti accorgi, riflettendo appena appena un po’,
che “…non v’era in quel giorno neppure una pennellata del
colore del giorno prima,…”come potrai maturare il desiderio e
la volontà di indirizzare più concretamente i tuoi comportamenti
a favore della parte di società più bisognevole?
Carissimi, pensosissimi e impegnatissimi signor ministro, A.D. di potentissima
multinazionale, politico dalla fronte sempre corrucciata per i gravosi pensieri
che l’attraversano, voi tutti preclari e ricercati (in tutti i sensi)
personaggi: qualche volta abbandonate il vostro figaro di fiducia e, alla
stregua di qualsiasi altro semplice ma sincero mortale, ponetevi di fronte
ad uno specchio e, prima di coprire le preziose guance di morbida schiuma,
fissate il vostro sguardo diritto nelle vostre pupille: quante cose sarà
possibile leggervi!
Roma, 6 giugno 2010
Ti saluto con affetto.
Enzo