LIONS CLUB ROMA AURELIUM


ANNATA 2009/2010

ATTIVITA' E CONSIDERAZIONI

(a cura di Enzo Maggi)


PRESIDENTe ing. raffaele Mele


Presentazione

E’ usanza del nostro Club documentare gli avvenimenti di ogni annata con un articolo di cronaca che richiami i punti salienti dell’incontro, citandone i protagonisti, gli ospiti, le motivazioni e le finalità. Tale compito è affidato all’“Addetto Stampa”, carica annuale all’interno del Consiglio Direttivo del Club; tanti sono i soci che nei 45 anni di attività del Club, di anno in anno, si sono avvicendati in tale responsabilità ed i loro scritti hanno trovato ospitalità, oltre che nel sito web del Club, anche nella pubblicazione periodica del nostro Distretto, la rivista “Lionismo”.
Ma per il nostro amico Enzo Maggi, socio dal 1978, che per la sua esperienza e i suoi consigli è sempre stato un importante punto di riferimento per il Club Roma Aurelium, la semplice cronaca non è mai stata sufficiente.
Cultore di musica classica e appassionato lettore di saggistica, letteratura e storia, quando ha ricoperto la carica di “Addetto Stampa”, l’avvenimento (sia esso un incontro conviviale, una gita, un convegno o altro) e la sua finalità gli hanno solo fornito lo spunto per richiami e commenti culturali ad ampio spettro, che hanno arricchito il semplice contenuto di cronaca, dando vita ad un articolo più completo, utile alla conoscenza di particolari anche inediti e di piacevole lettura.
Grazie a questa capacità non comune, il suo contributo è stato determinante per la pubblicazione del “Diario 2004-2005”, una sorta di compendio dell’attività svolta in una delle annate del nostro Club e per la stesura de “Il Libro del Quarantennale”, pubblicato nell’anno 2005, che ripercorre i 40 anni di attività del Club dalla sua fondazione. In quest’ultimo, oltre al commento di alcune tra le realizzazioni più importanti portate a termine dal Club, sono stati inseriti alcuni suoi articoli riguardanti, nello specifico, gli scopi e l’etica lionistica, ma anche riflessioni di carattere sociale e generale.
Questa pubblicazione, articolata in due parti, procede su questa linea, raccogliendo i suoi scritti più recenti.
La prima parte riporta gli articoli a commento dei singoli avvenimenti dell’annata 2009-2010; in ognuno di essi si è avvalso non solo delle sue conoscenze, tra queste “Domenica insieme a S. Clemente” e “Il Maestro Lanzillotta”, ma anche della sua inventiva, come nell’articolo “La Castelluccia” scritto in occasione della conviviale del 23 maggio 2010, a casa del Presidente del Club, nel quale immagina il viaggio, durato ben 450 anni, di un fantasioso signor Blackwhite da Canterbury a Roma percorrendo la Via Francigena (Via in questo periodo oggetto di particolare attenzione da parte dei mass media). Come il lettore potrà constatare, la cronaca di questi incontri occupa solo pochissime righe.
La seconda parte riporta, invece, alcuni dei suoi scritti, lettere o spunti di riflessione, apparsi anche sulle riviste sociali “Lionismo” e “The Lion”, su argomenti vari o problemi lionistici e non, di attualità nel momento in cui sono stati prodotti ed in tale sequenza cronologica sono elencati.
Anche in essi traspare la vocazione indagatrice del nostro amico volta ad analizzare argomenti richiamati alla mente da semplice osservazione della vita comune, vissuta in chiave fortemente emotiva (Una riflessione...d’estate, La Pastorale) e in chiave ironica (Riflessioni…ospedaliere) o suggerite da temi di attualità (Noi e l’immigrazione, Culture) o da considerazioni “mattutine” (Figaro).
La raccolta, come una rassegna di piccoli quadri ad olio, può regalare al lettore momenti di piacevoli sensazioni o di meditazione profonda.
Buona lettura!

Dino Manzaro

PRIMA PARTE

SERATA CON LA BULGARIA

Gli incontri conviviali del nostro Club sono iniziati il 23 ottobre con una serata dedicata alla Bulgaria, degnamente rappresentata da S.E. l’Ambasciatore presso la Repubblica Italiana Atanas Mladenov, accompagnato dalla gentile consorte.
Gli interventi del Presidente Mele e del diplomatico, signorilmente presentati dal cerimoniere Dori, sono stati preceduti dall’esecuzione al piano di alcuni brani musicali di Mozart, Scarlatti e Chopin, magistralmente eseguiti dal pianista bulgaro maestro Alexander Hintchev. Il Presidente Mele, aprendo ufficialmente l’annata conviviale dell’Aurelium, ha inteso sottolineare come l’incontro della serata perfettamente si inquadrava nelle finalità della nostra associazione, che ha fatto dell’amicizia tra i singoli, e in quella tra i popoli che ne deriva come logico corollario, lo scopo principale che ne motiva l’esistenza. Anche se le vicende storiche, vicine e lontane nel tempo, non sempre hanno agevolato i rapporti tra i due Paesi, oggi possiamo prendere atto con soddisfazione che, avendo essi trovato nell’Europa una casa comune, il futuro apre nuove e proficue prospettive di collaborazione.
L’Ambasciatore Mladenov, nel suo intervento, ha posto l’accento sul contributo italiano all’ingresso in Europa della Bulgaria, con la quale l’Italia intrattiene rapporti sia diplomatici che economici da almeno 130 anni. In campo economico, l’Italia è attualmente tra i primi tre partners del Paese balcanico. L’oratore è poi passato ad illustrare i vari aspetti del Paese che rappresenta e, attraverso una dettagliata dissertazione, ne ha affrontato i vari aspetti, da quello storico a quello economico, da quello politico a quello culturale, non omettendo di ricordare che il popolamento della Bulgaria è avvenuto storicamente attraverso una serie di conflitti e migrazioni di massa e che, quindi, oggi sia abitata da oltre l’85% da bulgari, slavi di probabile stirpe mongola, e da una discreta colonia turca e di altre etnie.
Uno spazio non breve l’oratore, richiamando un concetto espresso dal nostro Presidente nel saluto introduttivo, ha dedicato al nostro Club, quando ha voluto sottolineare l’atmosfera di cordialità ed amicizia che ha accolto lui e le altre persone al suo seguito e che ha sentito aleggiare per l’intera serata tra tutti i presenti: segno, questo, che il consesso che lo vedeva ospite poteva vantare un grande tesoro, e cioè l’amicizia lionistica che potrebbe anche far ben sperare in un seguito sul piano della collaborazione tra le due comunità.
Le parole del diplomatico, seguite con grande interesse da tutti presenti, hanno preceduto la proiezione di un DVD che illustrava i vari aspetti della sua nazione, ambientali, architettonici, culturali, religiosi e della vita quotidiana; dischetto che è stato poi lasciato in omaggio a tutti i presenti e sul quale mi soffermerò in seguito.
Dopo la cena e prima della chiusura della serata, affidata al Presidente di circoscrizione avv.Vecchione, il maestro Hintchev ha eseguito, applauditissimo, brani di Chopin, Ravel, Prokofief e Gershwin. Il tradizionale tocco della Campana ha posto fine ad un incontro conviviale intenso e che ha suscitato ampio e unanime consenso.
Prima di accingermi a scrivere la cronaca della serata conviviale, ho voluto guardare con più attenzione il DVD lasciatoci in omaggio dall’ambasciatore Mladenov e, una volta terminata la proiezione, avrei voluto avere la possibilità di poterlo ringraziare ancora una volta e con maggior calore, perché le immagini che scorrevano davanti ai miei occhi suscitavano in me forti sensazioni legate a ricordi di tempi che, almeno per quanto mi riguarda, mi parlavano di luoghi, di persone, di oggetti e sui quali la patina del tempo delittuosamente si deposita, fino a nasconderli del tutto. Perché è ben vero che le immagini illustravano un altro paese, un’altra civiltà, un altro modo di vivere e di relazionarsi: ma come non trovare analogie tra le stradine di paesini, talvolta coperti di neve, con quelle che possiamo ammirare nel nostro Cadore; tra lo sguardo quasi allucinato del Cristo dipinto nella chiesa di San Nicola a Dryanov e quello di altre immagini del Redentore esposte in molte chiese italiane di origine alto medioevo; i motivi decorativi della chiesa della Natività a Rila con le fasce bicolori del Duomo di Orvieto e di quello di Amalfi; gli strepitosi fulgori dei colori del bosco in autunno, dal giallo canarino dei castagni al rosso fiamma dei larici, che ci ricordano le colline toscane; i piccoli laghi di montagna, così simili a quello di Braies nel nostro Alto Adige, che sembrano brillanti lapislazzuli posati sul seno di una bella donna; e infine Melnik le cui case sembrano dei bambini alle cui spalle si ergono protettive, come affettuosi genitori, severe e ripide pareti montuose. E poi i costumi ricchi di colori e di decori che le popolazioni, fedeli a secolari tradizioni, ancora indossano in occasioni di festose ricorrenze. Proprio come accade presso le nostre genti, dalla Sardegna alla Basilicata, dalla Sicilia alla Val d’Aosta, con somiglianze che lasciano pensare che gli usi e le tradizioni, ignorando barriere e confini politici e camminando affidati unicamente al desiderio di uomini umili e operosi di allacciare relazioni ed amicizie, hanno potuto percorrere migliaia di chilometri e lasciando dietro di sé tracce indelebili.
E ben si intona a quanto appena affermato - e anche allo spirito con il quale si è svolta la serata - la frase che leggo su uno dei depliant che sono stati distribuiti fra i presenti alla conviviale: “Open doors to open hearts” e che mi sembra di dover tradurre così: “Apri le porte per aprire i cuori”.
Roma, 23 ottobre 2009
Grand Hotel “Parco dei Principi”

VISITA DEL GOVERNATORE

La riunione del Consiglio direttivo dell’Aurelium, che si è tenuta la sera del 27 novembre u.s. alla presenza del Governatore distrettuale Dott. Giampiero Peddis, ha visto la partecipazione di quasi tutti i suoi componenti e, come è ormai costume del nostro Club, anche quella di altri Soci tanto da sembrare una vera e propria assemblea, al punto di far esclamare all’illustre ospite che raramente gli era accaduto di presenziare ad una seduta dell’organo collegiale così affollata.
E ha pregato il nostro Cerimoniere Dori di documentare l’avvenimento con una foto sulla sua personale macchina digitale.Il Presidente Mele, dopo i saluti di rito e la presentazione dei componenti il Consiglio direttivo partecipanti alla seduta, ha illustrato con dovizia di particolari l’attuale situazione del Club Aurelium, i risultati conseguiti recentemente in materia di service, il programma proposto e approvato, con tutti gli eventuali aggiustamenti in corso d’opera, ma comunque sempre finalizzato al raggiungimento dei migliori risultati possibili. Il Governatore Peddis ha preso atto con soddisfazione di quanto esposto, dando ampio e positivo riconoscimento alle iniziative svolte e a quelle ancora in programma sottolineando, tra l’altro, l’utilità della presenza femminile nello svolgimento delle attività del Club, così come evidenziato dal Presidente Mele nella sua esposizione. Il Governatore non è stato avaro di elogi nei confronti di tutto il Club e ha esortato il Presidente Mele, e con lui il Club intero, a proseguire nel suo proficuo e interessante lavoro.
La successiva conviviale, apertasi con il saluto del Cerimoniere Dori a tutti i presenti, è proseguita con celebrazione dell’anniversario della Charter Night del Club che, secondo una consolidata tradizione più che decennale, si tiene in contemporanea alla visita del Governatore.
Quest’anno l’avvenimento è stato ricordato dall’immediato Past Presidente Giuseppe Gugliuzza il quale, in maniera sintetica ma con lodevole chiarezza, ha ripercorso i quarantatre anni di vita dell’Aurelium attraverso le tappe più significative che hanno caratterizzato l’impegno profuso dal nostro sodalizio sia a favore della comunità più prossima, sia a livello nazionale che internazionale, con iniziative autonome o in adesione a quelle attivate da istanze distrettuali, multidistrettuali e internazionali. Le parole dell’oratore, nelle quali si sentiva vibrare il sentimento di sincera partecipazione nei confronti di quanto andava evocando e di fiero orgoglio di appartenenza ad una associazione, ma più ancora ad un Club, che ha fatto della solidarietà verso il prossimo che soffre il motivo dell’associazionismo cui partecipa, sono state ascoltate dai presenti con estrema attenzione e da tutti apprezzate.
Il Presidente Mele, nel suo successivo intervento, preceduto da quello del Presidente di Circoscrizione avv. Vecchione, ha ripreso e ampliato i concetti esposti in precedenza al Consiglio direttivo e ha voluto insistere nel suo desiderio di consolidare e ampliare, attraverso il maggior numero possibile di incontri - conviviali e non - i vincoli di amicizia già presenti nel nostro Club, convinto come è che ciò si potrà riverberare positivamente sul senso di solidarietà che deve caratterizzare il nostro impegno nel sociale. Manifestazioni semplici ma coinvolgenti, rifuggendo da impegni troppo onerosi sul piano concettuale, facilitando invece quello spirito di coesione indispensabile per conseguire la vera operosità: questo è quanto si propone di ottenere chiamando a raccolta i Soci dell’Aurelium attorno al programma proposto. Il Governatore Peddis, prendendo la parola e dopo aver salutato tutti coloro che nel Club Aurelium hanno ricoperto, e ricoprono, cariche e incarichi distrettuali di prestigio, ha tenuto a sottolineare due concetti: la passione che deve animare ogni Lion nel partecipare alla vita del Club e del Lionismo in generale e non tralasciare mai di ricordare i suggerimenti che ci vengono dal passato, per poter meglio agire nel presente e nel futuro. Per avvalorare questa esortazione, è ricorso ad una originale lettura della figura del leone dai due profili che campeggia nel nostro stemma, individuando in uno un profilo raffigurante il passato, nell’altro il futuro. Un calda esortazione ha voluto rivolgere in materia di solidarietà, che non deve essere passiva al punto di identificarsi nell’assistenzialismo, bensì attiva, intesa come partecipazione alle problematiche di popolazioni indigenti mediante interventi che agiscano, oltre che sull’esistente, sulle cause dei disagi nei quali versano.
Mentre il Governatore Peddis illustrava questi concetti, la memoria di chi scrive è tornata indietro di ben diciannove anni, e precisamente alla sera del 1° giugno 1990, quando il Club Aurelium, nel corso di una serata dedicata a problematiche sociali, affrontava anche il tema dell’immigrazione e suggeriva proprio quanto oggi la massima autorità eletta del Distretto stava raccomandando. Anche di questo il prestigioso Club Aurelium poteva menar vanto: un visione anticipata di problematiche e suggerimento di soluzioni. Il rituale scambio dei guidoncini, ampiamente illustrati dal Governatore Peddis e dal Presidente Mele, la consegna di ricordi e di omaggi floreali hanno chiuso degnamente una serata elegante e costruttiva.
Roma, 27 novembre 2009
Grand Hotel “Parco dei Principi”

FESTA DEGLI AUGURI

Il tradizionale appuntamento di fine anno non poteva, come negli anni precedenti, tradire le attese e fornire al Presidente e al suo staff il piacere di vedere premiati i loro sforzi rivolti ad organizzare una serata piacevole e coinvolgente. Ed infatti la risposta degli amici del Club è stata, come sempre, corale: basti pensare che i Soci presenti sono stati quasi quaranta e i partecipanti hanno fornito, occupando i tavoli elegantemente preparati, un magnifico colpo d’occhio di una grande sala interamente riempita.
La garbata e puntuale apertura del Cerimoniere Dori ha suscitato anche attimi di emozione, quando ha voluto salutare Giulio Bernardini, un grande Socio che da molto tempo ha cessato, per motivi di salute, di frequentare il Club. Il ricordo di chi lo ha conosciuto è sempre vivo, per la sua genialità e generosità, attivo come pochi nel porsi al servizio delle finalità della nostra associazione. Basti accennare ad un solo nome: Fotoemoteca. Sento il dovere di ringraziare Dori per avermi dato occasione di ricordare con affetto colui che fu il mio padrino nel lontano 1979.
Il Presidente Mele apre ufficialmente la serata e, nel ringraziare tutti i presenti, desidera richiamarne l’attenzione sul programma delle attività che ha proposto per la corrente annata e che viene distribuito ancora una volta. Illustrate le modalità con le quali l’incontro si svolgerà, lascia il microfono alla cara Colomba Calcagni Antoniotti la quale, nel solco di una tradizione ormai decennale, porge all’attentissimo uditorio la sua poesia ispirata, come tutte le precedenti, dai sentimenti di amore che suscita il Santo Natale.
Il piatto forte dell’incontro è costituito dall’esibizione del Coro polifonico “Roma Cantat”, un complesso di venti persone con voci dal basso al soprano che interpreta, con rara perizia e con affettuosa adesione da parte dell’uditorio, un repertorio che va dal canto monodico medievale alla polifonia sacra e profana rinascimentale, dalla musica barocca a quella classica e a quella contemporanea. Il concerto, applauditissimo in tutte e due le parti con le quali si è offerto al pubblico, era diretto dal M.o Ermanno Testi che aveva come collaboratrice alla direzione artistica la M.a Ida Marini, due persone delle quali si scorgeva, nel loro alternarsi al podio, nella gestualità che accompagnava la reciproca intesa, nell’intensità con la quale partecipavano all’esibizione, una dedizione completa a quella che a buona ragione può definirsi la regina delle arti: la Musica.
Dedizione che ha suscitato in molti dei presenti un sentimento di partecipata tenerezza nei confronti di due persone che mostravano ammirevole modestia, ma grande professionalità. L’attesa lotteria, della quale viene apprezzata sia la generosità dei premi che la snellezza con la quale viene condotta e conclusa, chiude la serata che si conclude con il saluto affettuoso e riconoscente del Presidente Mele, giustamente soddisfatto per aver realizzato un piacevole incontro che va ad aggiungersi, come una ulteriore perla di una preziosa collana, a tutti quelli che i past Presidenti hanno attuato in precedenza e dei quali, specialmente in chi ha qualche decennio di militanza nel Club Aurelium, si ha un nostalgico e affettuoso ricordo.
Roma, 18 dicembre 2009
Grand Hotel “Parco dei Principi”

VISITA ALLA BASILICA DI S. CLEMENTE

E’ molto difficile ammettere che nella stessa persona possano albergare sentimenti contrapposti come quello del guerriero feroce e sanguinario e quello del principe letterato e mecenate. Eppure talvolta accade.
Il normanno Roberto I il Guiscardo, duca di Puglia, si adoperò non poco a favore della famosa Schola salernitana, scuola medica già nota nel secolo IX anche grazie all’opera di personaggi di grande cultura come l’ebreo Donnolo, e che agli inizi dell’undicesimo secolo aveva ricevuto un forte impulso innovatore, specialmente nel campo della chirurgia dopo la traduzione in latino dall’arabo dell’”Arte medica” di Galeno da parte del cartaginese Costantino Africano. Ci sarebbe da riflettere non poco su questo esempio, lontanissimo nel tempo, di collaborazione e convergenza, seppure non concordate, tra uomini diversi per origini e cultura: ebraica, africana, latina e araba!
Eppure lo stesso personaggio, Roberto I il Guiscardo, duca di Puglia, nel 1084 guidava la soldataglia che si abbatté su Roma come un uragano, da vero e proprio” dies irae”: Normanni e Saraceni si ubriacarono in un’orgia di sangue senza precedenti e, dopo aver scannato, stuprato, mozzato mani e dita per meglio procurarsi anelli e monili, portarono con sé migliaia di Romani che furono poi venduti come schiavi.
Una perfetta concreta anticipazione della stevensoniana storia del Dottor Jekyll e del Signor Hyde!
E la stessa furia devastatrice si abbatté anche sulla la primitiva chiesa di S.Clemente, edificata nel IV secolo sopra una casa romana del I secolo dell’epoca imperiale, forse la stessa dove S.Clemente, terzo successore di Pietro alla guida della nascente Chiesa romana, riuniva i fedeli. Ma neppure questa costruzione costituisce il livello primario dell’intero edificio: infatti la casa romana è sovrapposta ad una precedente costruzione dell’epoca repubblicana, forse adibita inizialmente a magazzini e poi utilizzata quale luogo di culto mitraico. Quindi la riedificazione della chiesa, avvenuta sempre nel XII secolo e voluta dal papa Pasquale II, rappresenta il quarto livello di una serie di costruzioni sovrapposte.
L’attuale chiesa, per la cui realizzazione furono impiegati in parte materiali e frammenti decorativi della precedente distrutta nel 1084, fu soggetta nel tempo a restauri ed abbellimenti ad opera di vari papi, finché Clemente XI, con un incarico affidato a Domenico Fontana, la consegnò ai posteri, nel 1715, così come oggi la vediamo.
E gli stemmi di Clemente XI, affrescati da Giuseppe Chiari, accompagnano il grande quadro centrale che ricorda il “Trionfo di S.Clemente” e insieme si offrono alla visione del visitatore. Il quale non può non rimanere attratto dal superbo spettacolo della “Schola cantorum”, recuperata dalla basilica inferiore e posta al centro della navata principale. Sopra le bellissime opere rappresentate dal candelabro tortile, dal leggio, dal presbiterio elevato e dall’altare maggiore, splendono con mille luci e colori i mosaici del XII secolo che ricoprono l’abside e l’arcone.
Nel contenuto spazio riservato ad un resoconto informativo e non divulgativo, quale è il presente lavoro, non è consentito dilungarsi eccessivamente nella descrizioni dei luoghi visitati; anche se lo spettacolo inusitato che domenica 17 gennaio si offriva al nutrito gruppo di amici dell’Aurelium meriterebbe una pubblicazione a parte, non fosse altro che per il turbamento che, una volta discesi nella basilica inferiore, scoperta nel 1857, e poi ancora più in basso nelle stanze dell’epoca imperiale e nel tempio di Mitra, l’eroe persiano i cui seguaci furono accaniti persecutori di cristiani, si prova nel percorrere angusti e tortuosi ambienti, dove duemila anni orsono si riunivano persone mosse da motivazioni varie secondo le epoche, ma sempre aggreganti, lasciando del loro passaggio tracce che oggi si tenta di interpretare per ricostruire, oltre agli ambienti, anche sentimenti e modi di vivere.
E i brevi accenni riferiti a quanto di meraviglioso e importante, sia dal punto di vista storico che artistico, è possibile rintracciare in un edificio che racchiude in sé oltre duemila anni di storia, non possono avere la pretesa di assurgere a guida turistica e culturale. Possono, al più, invogliare i lettori, assenti domenica 17 gennaio, a programmare una visita ad uno dei luoghi più interessanti e suggestivi che la nostra imprevedibile Roma conserva nel suo seno. Alcuni degli amici, soddisfatti spiritualmente ma non materialmente, si sono poi diretti alla Casa dell’Aviatore, dove hanno potuto colmare le lacune presenti con ampio e gradito materiale a propria disposizione.
Roma, 17 gennaio 2010
Basilica di S. Clemente - Roma

SALVIAMO VENEZIA CON IL MOSE

Però cosa può significare un piccolo segno grafico come un accento! Il biblico Mosé fu salvato dalle acque, dalle acque salvò il fuggiasco popolo ebreo, un moderno Mose (senza accento) dovrà vedersela con le acque. Intendiamo riferirci a Venezia e ai tentativi in atto per realizzare un sistema di difesa che riesca a frenare in qualche modo l’irrompere del mare verso la città lagunare con il suo deleterio fenomeno dell’acqua alta.
Nel suo libro “Signora dell’acqua”, Nantas Salvataggio s’inventa un episodio che vede protagonista un quartetto di tutto rispetto, Vivaldi, Goldoni, Casanova e Mozart i quali, alla vigilia della morte della Repubblica veneziana, 12 maggio 1797, si scambiano alcune impressioni sulla declinante città e il compositore austriaco confessa di capire perché “Venezia ha un caratterino tutto suo: è il solo posto al mondo dove i cavalli stanno in aria, i leoni hanno le ali e i piccioni vanno a piedi”. Con grande immodestia, vorrei dire che si era dimenticato di aggiungere che si va a fare shopping nei negozi e a prendere il caffè in gondola. Caratteristiche, queste, che possono anche destare curiosità e offrire motivo di diversivo al popolo vacanziero che ogni giorno invade Venezia; certamente lo sono un po’ meno per gli ormai residui abitanti e, ancor più, per la città stessa che ormai avverte come un ulteriore ennesimo schiaffo alle proprie strutture ogni verificarsi del fenomeno dell’acqua alta.
D’altro canto, come pensare che ormai la città, quasi interamente costruita su tronchi d’albero infissi su di un fondale melmoso e sabbioso che non riusciva a sostenere il peso di marmi e pietre, non dovesse mostrare, con il passare dei secoli, cenni di cedimento. E i Veneziani non furono assolutamente avari nella utilizzazione del legno offerto loro dai rigogliosi boschi dell’entroterra: basti ricordare che nella costruzione della Chiesa della Salute, prezioso gioiello del XVII secolo, furono infissi nel fondale marino quasi un milione e duecentomila tronchi d’albero, così ravvicinati da costituire loro stessi il primo pavimento. Purtroppo oggi, dopo quindici secoli dai primi insediamenti e tredici dalla costituzione di una città-stato, occorre prendere atto che se si vuole conservare un patrimonio che tutto il mondo c’invidia, dobbiamo assumere iniziative radicali e non più procrastinabili.
Strano destino quello di Venezia! Sull’acqua e con l’acqua, che le ha garantito piena sicurezza, ha fondato la sua potenza e la sua ricchezza per dodici secoli. Oggi, da questo stesso elemento viene minacciata mortalmente. Questa stessa amica-nemica alla quale ha dedicato ogni tipo di cura, addirittura istituendo, agli inizi del 1500, un organo che aveva l’incarico di controllare la laguna: il Magistrato alle Acque, istituto ereditato poi dallo stato italiano e che ha ancora sede in Venezia.
La disastrosa alluvione del 4 novembre 1966, che con i suoi 194 centimetri di acqua alta doveva rappresentare la più eccezionale del XX secolo, deve aver costituito l’ennesimo e, speriamo, definitivo campanello di allarme alle orecchie di tutte le istituzioni, il mondo scientifico, politico e culturale, i mezzi di informazione e la popolazione: non c’era più tempo da perdere. Anche questa volta, come era accaduto con il crollo del campanile, l’acqua infuriata che si era impadronita della Piazza e limacciosa vorticava nel Canal Grande, non aveva fatto vittime. Ma lo sconcerto e il terrore erano stati enormi. E con i primi anni settanta, con il susseguirsi di leggi speciali e di concorsi per acquisire progetti, ha inizio il cammino che dovrebbe portare a realizzare un ambizioso risultato: difendere, recuperare e riqualificare uno dei luoghi eletto patrimonio dell’umanità: Venezia e la sua laguna.
Quest’opera, il cui nome MO.S.E. costituisce l’acronimo di MOdulo Sperimentale Elettromeccanico, consiste in un sistema integrato di difesa costituito da schiere di paratoie mobili a scomparsa, in grado di isolare la laguna veneta dal mare Adriatico durante gli eventi di alta marea superiori a 110 centimetri. Queste paratie saranno posizionate davanti alle tre bocche di porto del Lido, di Malamocco e di Chioggia, bocche attraverso le quali l’Adriatico affluisce nei momenti di alta marea e si riversa sulla laguna. Come sopra accennato, il cammino del progetto ha avuto inizio, sia pure in forma di semplice studio, nei primi anni settanta ed è andato avanti come un percorso ad ostacoli: infatti si è dovuti arrivare al 2003 per la posa della prima pietra e, se non si presenteranno altri inciampi e se, soprattutto, non verranno meno i necessari finanziamenti, la conclusione dei lavori, oggi al 60%, è prevista per il 2014. A quel punto dovrebbero essere stati necessari quasi cinque milioni di euro.
In precedenza è stato chiarito che i lavori del MO.S.E. interessano tre bocche di porto. Direttore dei lavori in corrispondenza della bocca di porto di Chioggia è il nostro amico Ing. Maurizio Moroni, illustre socio del nostro Aurelium. E a lui la sera del 22 gennaio u.s. è stato affidato l’incarico di intrattenere soci e amici su questo argomento dai risvolti non soltanto tecnici, ma anche inediti e di quotidiana curiosità, destando vivissimo interesse nei presenti, intervenuti numerosi. E si deve al Presidente Mele se, nel solco di una tradizione ormai consolidata da numerosi esempi pregressi, ha voluto valorizzare una delle tante professionalità che arricchiscono il nostro Club, riservandogli un incontro come protagonista.
Alla conferenza dell’amico Moroni è seguito un intervento della Prof.ssa Patrizia Ghelardini, ospite della serata assieme ai colleghi Luciano Paolozzi e Giuseppe Luzi, la quale ha presentato i risultati della ricerca su nuovi antibiotici anti-resistenza batterica, ricerca alla quale il nostro Club, nell’annata 2006-2007, ha contribuito con un service in danaro. Il presente resoconto, necessariamente conciso, non può rappresentare il luogo più adatto ad una divulgazione di un argomento altamente scientifico, anche per la inadeguatezza culturale di chi scrive. Comunque non si può non evidenziare, estrapolando dalla dotta conversazione della Prof.ssa Ghelardini, un argomento che ha colpito particolarmente l’uditorio e cioè la facilità con la quale la popolazione microbica assume valori superiori al milione di individui, per cui diviene altamente probabile una spontanea modificazione del patrimonio genetico. Ed è questa caratteristica che consente ai batteri di ritrovare l’assetto più opportuno per sopravvivere in qualsiasi circostanza, compresa quella dell’azione letale degli antibiotici.
Si può facilmente immaginare quali possono essere le conseguenze legate a tale fenomeno: il completo fallimento terapeutico. Gli studi portati avanti dalla Prof.ssa Ghelardini e dai suoi valorosi colleghi Paolozzi e Luzi sono proprio mirati a contrastare l’insorgere della sopra descritta resistenza batterica, recuperando agli antibiotici tutto il loro rassicurante potere. E il nostro Club ha preso atto della meritevole opera dei ricercatori e, per quanto è stato possibile, ha ritenuto di dover contribuire alla prosecuzione della meritevole operazione.
Roma, 22 gennaio 2010
Circolo dell’Esercito Italiano – V.le Castro Pretorio

LE FALSIFICAZIONI MONETARIE

Stavo navigando su internet per cercare alcune notizie e curiosità per arricchire il resoconto della serata del 12 febbraio u.s., svoltasi presso il Circolo della Guardia di Finanza e che aveva come tema informativo “Le falsificazioni monetarie più comuni”, allorquando mi sono imbattuto in un certo Umberto Mannucci, autore di una pubblicazione Hoepli dal titolo “La moneta e la falsa monetazione”. Certo che dal nostro Past Governatore Distrettuale Emerito (quest’ultimo appellativo gli spetta di diritto e sùbito, prima che venga ulteriormente inflazionato) tutto ci si poteva aspettare, ma che addirittura si intendesse di monetazione falsa, lui che aveva sempre mostrato, giustamente e meritatamente, interesse per quella vera era troppo difficile da mandare giù.
Poi, rileggendo con più attenzione la notizia, potevo scoprire che “Mannucci” aveva due enne e che la pubblicazione era datata 1908. Si poteva passare sopra l’errato cognome (accade anche oggi); ma era difficile accettare che il Nostro potesse partorire pubblicazioni ancor prima di essere partorito lui.
Cosicché sono rientrato dalla mia stupita curiosità e ho recuperato quei pochi appunti che avevo preso nel corso della interessante, ma stringata, conferenza che sul tema in oggetto aveva svolto il Dott. Col. Paolo Costantini, coadiuvato da un suo collaboratore con una serie di filmati che ritraevano malviventi nell’esercizio delle loro funzioni (sic!). Immagini catturate da telecamere che con estrema perizia erano state strategicamente collocate da uomini della Guardia di Finanza.
A dire la verità, hanno fatto un po’ di tenerezza quelle figure sfocate che armeggiavano, quasi fluttuando in una grigia nebbia, attorno ad una macchina stampatrice che sembrava essere identica a quella che avevamo visto utilizzare da Totò, Peppino de Filippo e Giacomo Furia, compagni in una improbabile banda di falsari dilettanti, desiderosi unicamente di permettersi di comprare un cappotto di lana e un paio di scarpe con lo “scrocchio”. Ovviamente da ben altre intenzioni erano animati gli individui ripresi (e, per fortuna, presi in manette) dagli uomini delle Fiamme Gialle se, come abbiamo appreso, facevano parte di un fenomeno talmente esteso da inondare, con il loro prodotto, la circolazione monetaria, ora sopranazionale, in maniera preoccupante e con una tale sofisticazione da passare inosservato alla maggior parte degli utilizzatori.
Anche perché il taglio preferito della moneta falsificata si attesta sul medio-basso, dove minore attenzione viene prestata e dove maggiore è la velocità di circolazione.
La falsificazione monetaria è un fenomeno antico, nato con la stessa monetazione, allorquando venne abbandonato il baratto a beneficio di un mezzo obbiettivamente neutro nei confronti dei beni da scambiare e più facile da tesaurizzare. Le vicende riferite al diritto e alla potestà di conio sono strettamente legate alla evoluzione della società, passata dal piccolo o grande gruppo tribale allo stato sovrano, più o meno esteso e fino ad organizzarsi in forma sovranazionale. E l’inventiva nel trarre beneficio da azioni contrarie alle leggi che regolano l’emissione legale della moneta non ha mai conosciuto limiti e, sicuramente, a questo fenomeno, interessante e curioso nel contempo, dovrebbe essere dedicata la pubblicazione che , come dicevo in precedenza, mi ha colpito nell’iniziare questo mio resoconto.
E il fenomeno non conosce limiti anche dal punto di vista dei protagonisti, se tra costoro possiamo annoverare personaggi al vertice della società, addirittura una nazione stessa, come accadde durante la Seconda guerra mondiale, quando Hitler tentò di sconvolgere l’economia dell’Inghilterra, facendo stampare e immettere sul mercato inglese ingenti quantitativi di sterline false. Anche in Italia abbiamo avuto un episodio di falsa monetazione, la cui responsabilità non fu quella di sparuti gruppetti di falsari più o meno organizzati, bensì di dirigenti apicali di banche.
Episodio che tutti ricordano come la scandalo della Banca Romana, istituto di credito che, con altre cinque banche, aveva la facoltà di stampare e mettere in circolazione carta moneta e che ancora riusciva ad impedire che l’emissione della moneta fosse affidata, come avvenne in seguito, alla sola Banca d’Italia, che allora si chiamava Banca Nazionale.
Quando il boom edilizio romano, causato dal trasferimento a Roma della capitale, si afflosciò e creò la solita voragine di fallimenti, la Banca Romana si trovò seppellita da una valanga di crediti inesigibili, al punto di rischiare il fallimento. L’inchiesta ministeriale accertò che la banca, per evitare il disastro, non soltanto aveva messo in circolazione moneta per 25 milioni più del consentito, ma ne aveva stampato clandestinamente altri 9 milioni, che oggi corrisponderebbero a parecchie diecine di miliardi. E lo aveva fatto riprendendo le numerazioni già utilizzate in precedenza.
Fu vera e propria falsificazione? Personalmente (e ignorantemente) ho i miei dubbi, visto che il “falsario” era legittimamente facultizzato a battere moneta, aveva utilizzato materiale e mezzi autentici legalmente posseduti. Forse anche per questi motivi, ancora una volta e in puro stile italico, il balletto delle varie personalità dell’epoca - Giolitti, Crispi, Colajanni ed altri ancora - l’una contro l’altra armata e con coperture monarchiche, massoniche e da Oltretevere, riuscì a realizzare il solito finale “a tarallucci e vino”. Gli stessi “tarallucci e vino” che hanno aperto e chiuso la seconda parte della serata conviviale che, non dimentichiamolo, era dedicata anche al declinante Carnevale, declino compiutosi al suono di una languida tastiera, alla voce di una graziosa cantante e alla temeraria esibizione danzante di alcune irriducibili coppie di soci ballerini.
Sicuramente non avranno avuto necessità di aspergersi delle rituali Ceneri.
Roma, 12 febbraio 2010
Villa Spada - Circolo Guardia di Finanza

FRANCESCO LANZILLOTTA

Quando il giovane maestro e compositore Francesco Lanzillotta ha impugnato il microfono “gelato” per ringraziare, nella persona del Presidente Mele, il Lions Club Roma Aurelium che aveva voluto premiarlo con una borsa di studio per le sue moltissime attività già svolte e per quelle che ancora lo attendono, la mia attenzione è stata attratta dalle dita lunghe e affusolate con le quali avvolgeva il piccolo strumento elettronico. E la mia immaginazione me le ha trasportate sulla tastiera di un pianoforte, mosse con dolcezza e sentimento nella esecuzione di una melodia affettuosa come il “Chiaro di luna” di Beethoven, oppure frenetiche e nervose nell’interpretare uno dei tantissimi brani del virtuoso Liszt. Sempre e comunque non lasciandosi impressionare dalla distanza tra le varie ottave della tastiera, padroneggiate con disinvoltura e sicurezza. Identica plastica immagine avrei potuto avere se le dita fossero state piegate o completamente distese sulle corde di un violino, alla ricerca della giusta nota fissata dal russo Ciajkovskij nel suo notissimo concerto per violino. E più tardi, assistendo alla proiezione di un DVD che lo vedeva impegnato a dirigere un’orchestra di ampio organico che eseguiva alcune parti della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, ho avuto modo di constatare che al movimento delle mani, da me immaginato, si era aggiunto quello delle braccia e del capo, con una gestualità imperiosa e ipnotica allo stesso tempo, con la quale dominava sia i “soli”, sia il coro e l’orchestra.
Riconosco che per me non è facile dare un giudizio sulla efficacia della gestualità di un direttore d’orchestra mentre si trova sul podio: ci possiamo trovare di fronte a quella pacata e signorile di un Giulini, a quella appena accennata di un Sawallish, a quella ieratica di un Muti. Ad una precisa domanda potrebbero rispondere soltanto per primi gli orchestrali che guardano il volto e le mani del loro direttore; quindi i critici musicali e, per ultimi, gli sprovveduti come il sottoscritto, che restano affascinati da quella figura che ben oltre la metà del diciannovesimo secolo ancora non esisteva.
Certamente, la composizione che il Maestro Lanzillotta ha voluto offrire alla nostra attenzione ha rappresentato un saggio della sua bravura: a memoria, senza l’ausilio dello spartito, chiamando all’entrata di volta in volta e con vigore strumenti, sezioni di orchestra o l’orchestra intera, come pure le voci, ha diretto la parte forse più spettacolare della composizione verdiana, il “Dies irae”, di una drammatica veemenza, scaturita dalla inesauribile vena musicale del Cigno di Busseto all’età di oltre sessant’anni ed eseguita per la prima volta nel 1874 in memoria di Alessandro Manzoni. I critici musicali dell’epoca videro in questa “Messa da requiem” l’abbandono, da parte di Verdi, di quella che fino a quel momento era stata la sua sigla melodrammatica.
Giudizio errato: se ascoltiamo con attenzione la Messa, possiamo constatare che si tratta di sette atti di una immensa tragedia posta in musica, che ha come libretto antiche fonti liturgiche di grande forza scenica. E poi la smentita più clamorosa a quanto sostenuto da una parte della critica la fornì, in prosieguo di tempo, lo stesso Verdi con la sua successiva produzione, chiusa con il trionfante “Falstaff”, composto quando aveva già superato gli ottanta anni di età. Ma torniamo al nostro Maestro Lanzillotta, il cui curriculum non può non destare stupore: anche se vogliamo giudicarlo a misura, occupa un foglio continuo di carta di almeno mezzo metro. E allora sorge spontanea una domanda: a soli trentatre anni, come avrà fatto ad inanellare tutti quei premi, i riconoscimenti, a produrre tutte quelle composizioni per il cinema e il teatro, a collaborare con decine di artisti, a dirigere moltissime orchestre praticamente in tutto il mondo.
Soltanto quelle citate nel curriculum sono una dozzina.
Di tutte le manifestazioni dell’anima che ha raggiunto lo stadio più alto della sua evoluzione, dalla vegetativa alla sensitiva, da questa alla razionale e infine alla spirituale, la musica rappresenta senza dubbio quella più coinvolgente e di più rapido effetto. Ma anche un dipinto o una poesia possono commuoverci. E questo lo dobbiamo a colui che ha saputo leggere dove tutti gli altri non sono stati in grado di farlo. Scrive Vito Mancuso: “Quando Mozart componeva, non inventava nulla, sentiva. Quando Rembrandt dipingeva, non inventava nulla, vedeva.” … “Diceva Mozart: tutto è già stato composto, ma non ancora trascritto.” L’uno e l’altro sono grandi non perché hanno inventato qualcosa che prima non c’era, ma perché hanno visto e scoperto una realtà che c’era da sempre.
Ora, quando incontriamo una persona che, con grande lavoro e sacrificio e assistita da doti innate, riesce a farci mettere in contatto con i grandi del passato che sono riusciti a far diventare anche nostri i loro pensieri ora sotto forma di musica, ora di colore, ora di scrittura, procurando in noi le medesime sensazioni che provarono i loro contemporanei, ci troviamo al cospetto di un artista che ha saputo ricreare una comunione impossibile temporalmente, ma culturalmente realizzabile. E la borsa di studio che il Lions Club Roma Aurelium ha voluto assegnare al Maestro Lanzillotta sabato 13 marzo sta ad esprimere l’ammirazione per il suo brillante passato, ma soprattutto l’auspicio per il luminoso futuro artistico che lo attende, da condividere con emozione da quanti avranno il privilegio di seguirlo nelle sue apparizioni pubbliche.
Il nostro Governatore Distrettuale Giampiero Peddis, che desideriamo ringraziare per aver voluto onorare con la sua presenza l’avvenimento, nel suo intervento conclusivo ha avuto espressioni di elogio nei confronti del nostro Club, di ammirazione verso il Maestro Lanzillotta e di ringraziamento verso il nostro socio Ennio Morricone, premio Oscar per le sue innumerevoli famose colonne sonore per film note in tutto il mondo, cui si deve la segnalazione dell’artista meritevole del riconoscimento.
La notizia della manifestazione ha avuto ampio e significativo spazio nella edizione cittadina de “Il Messaggero” di martedì 16 marzo.
Roma, 13 marzo 2010
Grand Hotel “Parco dei Principi” Pubblicato sul n° 3/2010 di “Lionismo”

UNA SERATA IN FAMIGLIA

Ed è stata proprio così come il Presidente Mele l’aveva definita nella sua lettera di convocazione: una serata semplice e dolce, sottolineata con discrezione dalla musica che la carissima Maria Paola Manucci ha voluto regalare ad un uditorio niente affatto distratto dai riti conviviali.
Anzi: più di una volta ci siamo trovati ad accompagnare sottovoce motivi che avevano segnato momenti significativi di qualche anno addietro e che ora tornavano con nostalgia (e forse anche con qualche rimpianto) perché riproposti con dolcezza e perizia.
L’incontro è stato aperto dal consueto intervento con il quale il Presidente ha puntualizzato la situazione del Club circa le attività svolte e quelle ancora in calendario, situazione che deve essere considerata soddisfacente. Ha rinnovato, comunque, l’invito ad una sempre maggiore partecipazione alle iniziative del Club, non ultima quella che attiene al sostegno che tutti i Soci sono chiamati a dare alla positiva riuscita della candidatura del nostro socio Mario Paolini alla carica di secondo Vice Governatore in occasione del prossimo Congresso distrettuale di Viterbo.
Sono seguiti due interventi che si possono definire di natura didattica, nel senso che sono serviti a ricordare e a meglio chiarire la portata e gli scopi di due iniziative fondamentali della nostra Associazione: il M.E.R.L. (Membership, Extension, Retention, Leadership) e L.C.I.F. (Lions
Club International Fondation). Il primo argomento è stato affrontato dal nostro socio Francesco Lomonaco, officer distrettuale con l’incarico di referente del nostro Club, il quale ho sottolineato l’importanza del gruppo operativo che ha come obiettivo il tema della crescita associativa di qualità.
L’esposizione del tema L.C.I.F. ha visto impegnato il socio Giorgio Dori, officer distrettuale con l’incarico di referente del nostro Club, il quale ha brevemente ricordato le finalità di questa Fondazione che potrebbe definirsi, in un certo senso, una specie di finanziaria della nostra Associazione, con lo scopo di sostenere finanziariamente progetti di varia natura, compresi quelli riferiti a situazioni di emergenza, quali calamità naturali, utilizzando i fondi che provengono da tutti i Clubs del mondo.
Come prima scritto, la cena è stata accompagnata dalle dolci e discrete note di canzoni indimenticabili, alcune anche interpretate da una vocina aggraziatissima, che le esperte mani di Maria Paola faceva scaturire da un vetusto pianoforte verticale, gioia e delizia dell’esecutrice, la quale più di una volta si è rammaricata per non aver potuto esprimersi meglio proprio a cagione di un strumento che reputava non all’altezza della serata. Più di un commensale, facendo sfoggio di un proprio inesistente orecchio musicale, ha tentato di rassicurarla che tutto andava per il meglio: ma invano. In effetti, lo scopo di creare un intrattenimento diverso dall’usuale cicaleccio che accompagna un pranzo era stato raggiunto ampiamente; quindi, onore al merito di chi a ciò aveva contribuito. Ma il Presidente Mele aveva tenuto in serbo due sorprese che sono state accolte dai presenti con grande partecipazione: la prima si riferiva ai festeggiamenti in onore del compleanno del socio Lomonaco, con il rituale spegnimento delle tradizionali candeline, pudicamente concentrate in un solo esile moccolotto, e il taglio della torta, volutamente ignorata nel menù per
meglio nascondere la sorpresa, quando tutti si stavano chiedendo a cosa potevano servire le posate da dolce che troneggiavano sulla tavola.
La seconda sorpresa ha riguardato il conferimento al nostro socio Umberto Manucci, PDG Emerito, di un Melvin Jones, il terzo della serie che potrà vantare, ma il primo promosso dal nostro Club, dopo i due che gli erano stati conferiti dal Distretto. L’amico Umberto, nel ringraziare tutto il Club nella persona del Presidente Mele, si è ripromesso, con la modestia che lo contraddistingue, di toccare la soglia dei cinque, stabilendo così un record difficilmente eguagliabile.
E sarebbe un investimento economico non da poco, visto che ad ogni onorificenza corrisponde un brillantino incastonato nel distintivo.
Il rituale tocco della Campana da parte del Presidente ha concluso la serata nella sua parte ufficiale, dopo che la gentile consorte Margherita aveva omaggiato le signore presenti di una graziosa confezione di profumata lavanda. A questo punto, su iniziativa di un past Presidente, per giunta il socio più anziano come appartenenza, ha avuto inizio una specie di esibizione canora, alla quale si è gentilmente prestata la dolce Maria Paola accompagnandola al piano e che ha visto, in rapida successione, coinvolti altri canterini, fino a raggiungere la consistenza di un mezzo coro orchestrale, per la verità con risultati non molto polifonici, ma comunque sempre animati da buona volontà. Altri contributi canori sono stati colti al volo dal Presidente in una specie di tour
tra i tavoli e ai quali, immodestamente, ha partecipato anche il vostro cronista, con risultati tutti da dimenticare.
Alla fine l’esibizione si è spenta per inevitabile sfinimento dei protagonisti, esausti e senza voce. E, allora: tutti a casa!
Roma, 26 marzo 2010
Grand Hotel “Parco dei Principi”

UNA SERATA CON IL GONFALONE

Personalmente non conosco i motivi per i quali l’amica Clelia Muzii e il fratello Silvio abbiano, a suo tempo, privilegiato l’Oratorio del Gonfalone per coltivare le loro inclinazioni nei confronti della musica, tanto da farne il punto d’incontro di manifestazioni di grande richiamo per intenditori e appassionati. Debbo, però, riconoscere che mai scelta fu più felice e fortunata, avendo coniugato in un unico ambiente due somme espressioni dell’arte: la musica e la pittura.
E, come ogni bravo romano verace che si rispetti e che ignora tanta parte delle bellezze che la sua grande Città conserva, ho preso coscienza con colpevole ritardo dell’esistenza di tale unione e più precisamente agli inizi del 2001, quando l’Aurelium, su iniziativa dell’allora Presidente Dori e con la collaborazione della sempre presente Clelia (per gli amici Lia), fu organizzato un concerto in onore del nostro socio Ennio Morricone, del quale fu eseguita molta della sua famosissima musica e al quale fu conferita la massima onorificenza lionistica, il Melvin Jones Yellow.
L’Oratorio del Gonfalone, la cui costruzione e decorazione vennero ultimate nel 1580, fu completato con la sua facciata alcuni decenni dopo e raccoglie, lungo le pareti interne, il grande ciclo della Passione di Cristo, secondo il ritmo dell’antica Sacra Rappresentazione, con una serie di affreschi realizzati da molti pittori, che vanno dal primo, ”L’Ingresso di Cristo a Gerusalemme”, firmato dal Bertoja, all’ultimo, “La Resurrezione di Cristo”, opera di Marco Pino. La Compagnia del Gonfalone, attiva specialmente nel campo assistenziale, fu riconosciuta ufficialmente da Papa Clemente IV con un “Breve” del 1267 e nel tempo si meritò grandi benemerenze, tra le quali anche la “Rosa d’Oro”, conferita nel 1526 da parte di Clemente VII. Assunta in seguito al rango di Arciconfraternita, nel cinquecento si installò nell’attuale Oratorio.
Tutte le vicende dell’edificio, dalla sua costruzione e decorazione agli interventi di restauro, datati 1960 e 1999, nel corso della conviviale del 30 aprile u.s., sono stati illustrati dal Prof.
Claudio Strinati, Sovrintendente Speciale del Polo Musicale Romano, la cui esposizione, completata dalla proiezione di un DVD, del quale Lia ha poi fatto omaggio a tutti i presenti, è stata seguita con profondo interesse da un uditorio attentissimo. La serata è stata onorata dalla presenza del Presidente del Coro Polifonico Emilio Acerna e dal suo Direttore Artistico Angelo Persichilli.
Ma, sempre nel solco delle iniziative realizzate dall’amica Lia, merita di essere ricordato che dal 1998, nei locali sottostanti l’Oratorio è ospitata una prestigiosa, amplissima raccolta di registrazioni musicali, donata da Lia a perenne memoria del fratello Silvio, anche lui socio dell’Aurelium, persona di una cultura vastissima, che andava dalla filologia classica alla letteratura greca, latina e italiana, dalla storia della filosofia a quella delle religioni, dalle arti figurative alla musica.
La serata ha avuto una conclusione tutta interna alla nostra vita di club, con l’ingresso di due nuovi soci, il Gr. Uff. Dott. Giuseppe Pastena, prefetto a riposo, e il Dott. David Marcelli, conosciuto per la sua militanza nel Leo Club Aurelium, entrambi presentati dal socio Prof. Avv.
Giuseppe Gugliuzza, il quale ne ha letto i curricula e, con visibile emozione, ha loro consegnato il distintivo della nostra Associazione, dopo che, padrino e nuovi soci, avevano espresso formale ed esplicita adesione alle finalità del Lionismo, lette solennemente dal Cerimoniere Dori.
Roma, 7 maggio 2010
Grand Hotel “Parco dei Principi”

LA CASTELLUCCIA

William Blackwhite, facoltoso mercante inglese di stoffe pregiate e molto conosciuto per la sua grande fede religiosa, era rimasto profondamente colpito dalla lettura dello scarno ma esatto documento con il quale Segerico, arcivescovo di Canterbury, nel 990, di ritorno da Roma, aveva elencato le 79 tappe che avevano punteggiato il lungo percorso dalla sua città alla Città Eterna. Erano trascorsi più di cinque secoli da quell’illustre pellegrinaggio e già molti altri fedeli si erano avventurati e, spinti da tenace fede, ancora si avventuravano sul percorso lungo migliaia di chilometri, denso di pericoli di ogni genere, sia da quelli rappresentati dalla natura sconosciuta e ostile che da briganti e predoni, che erano i veri e propri padroni di strade e sentieri insicuri.
Ma la fede che lo animava e, ammettiamolo, la speranza di aprire nuovi proficui canali al suo mestiere, spinsero William Blackwhite ad intraprendere un’avventura dalla quale trarre ristoro sia per l’anima che per la borsa. Studiò bene il tragitto, chiese informazioni e consigli ad
altre persone che avevano in passato praticato il pellegrinaggio lungo una strada che, per il fatto di attraversare da nord a sud tutta la Francia, era stata denominata “La Via Francigena” e ai primi giorni del 1560 si mise in viaggio e qualche tempo dopo pose piede sul continente, e più precisamente a Calais, città che soltanto da due anni era tornata francese, dopo due secoli di dominio inglese. Era la prima tappa sul suolo europeo, la prima di un lungo tragitto che l’avrebbe portato, alle porte di Roma, a soggiornare, prima dell’ultimo balzo, in un castello-casale del XII secolo sulla Via Cassia e che era noto ai pellegrini per aver dato il nome a tutta la località,”La Castelluccia”, ma anche per la sua ospitalità, povera ma confortevole.
Ma al buon Blackwhite accadde uno strano e, per certi versi, incredibile fenomeno: da quel momento in poi, cioè dal suo sbarco a Calais, il tempo iniziò a scorrere per lui in maniera talmente veloce che, in poche settimane, si trovò a vivere, pur restando sempre se stesso, in anni e secoli sempre più in avanti e divenne spettatore e, a sua insaputa, anche protagonista di avvenimenti che stavano delineando un nuovo profilo all’Europa, e non soltanto ad essa: la Riforma del monaco agostiniano Lutero, la Guerra dei Trent’anni, l’inizio della decadenza della Repubblica veneziana, il consolidarsi dell’egemonia turca sul Mediterraneo, il lento ma continuo espandersi, tra alterne vicende, del Papato e del Piemonte.
Mentre attraversava la Francia (ed era ormai il XVIII secolo), era stato sfiorato dal fatidico 14 luglio 1789 e, di gran carriera, si era precipitato verso Besancon, tornata francese poco più di un secolo prima. E mentre ancora si stava chiedendo come diavolo ci fossero capitati nel 1649 , lì a Besancon, gli spagnoli, si trovò ad attraversare le Alpi al Passo del Gran San Bernardo.
Fece il suo ingresso ad Aosta proprio nell’anno in cui la città entrò a far parte del Regno di Sardegna (1794), precedendo di appena due anni la campagna d’Italia di Napoleone. A questo punto qualche lettore si potrebbe porre la domanda: ma questo tizio, che se ne va in giro per l’Europa vestito secondo la moda dei tempi di Shakespeare, come fa a passare inosservato? Si fa presto a rispondere: con tutti i guai che a quel tempo imperversavano, vuoi che la gente si potesse interessare di un poveraccio (almeno dall’aspetto) che se ne andava in giro badando soltanto ai casi suoi?
Comunque proseguiva con il suo viaggio in Italia. E continuava, facendo molta attenzione a non lasciarsi coinvolgere da tutto quello che stava accadendo in quel benedetto “Bel Paese”: la Repubblica Cisalpina, la caduta di Venezia e quella del regime napoleonico, la restaurazione dei vari governanti, compreso il Papa, deposti dal Bonaparte, i moti rivoluzionari del 1830, la guerra contro l’Austria del 1848, Mazzini, Garibaldi, la spedizione dei Mille, Teano, la Breccia di Porta Pia, l’Unità d’Italia. E via di questo passo, fino alla Grande Guerra del 1915-18
e all’avvento del Fascismo, alla seconda Guerra mondiale, alla caduta della Monarchia e, infine, alla instaurazione della Repubblica. Imperterrito, il Blackwhite continuava nel suo viaggio verso Roma, facendo tappa a Pavia, a Parma, a Pontremoli, a Lucca, a S.Gimignano, a Siena, a Bolsena, a Sutri.
E proprio mentre si stava riposando in questa ultima amena località (si era ormai, in quel momento, al primo decennio del 2000 ), venne a sapere che nell’aprile del 1932 il Capo del Governo Benito Mussolini aveva compiuto una visita alla tenuta “Castelluccia alla Storta”, per assegnare ufficialmente le abitazioni ad alcune famiglie coloniche che si andavano ad insediare nella tenuta. Quando si dice da dove parte il buon esempio!
Spinto dalla curiosità e ansioso di poter finalmente terminare il lungo e travagliato viaggio e di riposarsi alla dolce frescura dell’antico castello per poi incamminarsi lungo l’antica Via Triumphalis che l’avrebbe condotto fino alla porta santa della basilica di San Pietro, l’ormai pluricentenario pellegrino inglese riprese il cammino e, poco dopo, si trovò ad entrare in un comprensorio pieno di moderne costruzioni dalla diversa fattura: strisce di palazzine lunghe centinaia di metri, tutte uguali, anche nel colore ocra, con il loro ingresso riservato e separato dagli altri da un sottile muretto; alcuni piccoli edifici di appena due-tre piani; e poi alcune ville isolate, delle quali di scorgeva a malapena il tetto che si elevava al di sopra di severe e robuste mura, seminascosto da vegetazione alta e rigogliosa. Mentre un po’ sconcertato Blackwhite si stava chiedendo dove fosse andato a finire tutto quel verde di cui tanto aveva sentito raccontare, vide un tizio che con aria alquanto rassegnata portava al guinzaglio un cane bello grasso che, alla ricerca del posticino preferito, annusando costeggiava un muro oltre il quale si udivano provenire voci e suoni che stavano a testimoniare la presenza di parecchie persone. L’inglese, con deferenza e alquanto vergognoso per il suo ormai da molto tempo sorpassato abbigliamento, si rivolse all’annoiato uomo per chiedergli notizie sia del verde non trovato che di quanto stesse accadendo nella villa della quale poteva scorgere, oltre il muro, il dolce declinare di un tetto signorile e le cime altissime di piante secolari. Con fare scocciato, l’accompagnatore del cane rispose che del verde lui non sapeva un bel niente e, per quanto riguardava cosa stesse accadendo oltre il muro, disse di aver
saputo in giro che c’era un raduno di leoni. “E più non so’”.
Blackwhite restò sconcertato dalla risposta avuta: non sapeva molto di leoni e di altre bestie feroci; ma gli rimaneva un po’ difficile accettare la notizia che dei leoni potessero parlare e ridere. E poi ascoltare musica! Forse siamo vicini ad un circo equestre? Cosicché, visto che il cancello d’entrata della villa era rimasto leggermente aperto, con fare furtivo e cercando riparo nei rigogliosi cespugli disseminati un po’ dappertutto, s’intrufolò all’interno e poté scorgere, raccolti su di un bel prato all’inglese (sic!), distinti signori e belle signore che amabilmente conversavano tra loro, si scambiavano complimenti affettuosi, accompagnati da sincere risate, in un vorticoso incrociarsi di incontri con altre persone che affollavano gazebo, panchine e sdraie.
Al riparo di enormi ombrelloni, una lunga tavola mostrava una sequela senza fine di pietanze prelibatissime, alla cui vista il pellegrino, che da tempo immemorabile si cibava ormai di solo pane e qualche cipolla, sentì salirgli alle labbra non un’acquolina, ma un torrente di saliva che, sgorgando, andò a colargli lungo la incolta barba e il sudicio corpetto. A pochissima distanza, un giovin signore pigiava le dita su una piccola colorata spinetta, dalla quale scaturivano dolci melodie che non riuscivano, però, a sovrastare il lieto cicaleccio che regnava sovrano. Ma il giovin signore continuava nel suo impegno con fare languido e trasognato. Sicuramente il languore gli veniva procurato dalla vicinanza di tutto quel ben di dio esposto e a lui non accessibile, almeno per ora.
L’intrusione di Blackwhite durò molto a lungo, ma di leoni nessuna traccia. Le diverse decine di partecipanti alla riunione presero d’assalto la tavola delle cibarie: ma il tutto avvenne con stile e signorilità, anche se con entusiasmo e ad una velocità incredibile, vista l’età media dei convitati. Una signora e un signore, probabilmente gli anfitrioni padroni di casa, si affannavano a destra e a manca affinché ognuno si sentisse a proprio agio e non mancassero posate, bicchieri, acqua e vino a volontà, dando acconce istruzioni al personale di servizio per aggiungere tavoli e sedie, laddove se ne avvisasse la carenza. Poi, satolli e soddisfatti, giacquero mollemente abbandonati su panchine e sdraie; e proprio nel momento in cui sarebbe stata gradita qualche nenia accattivante, la musica taceva, perché il giovin signore si era avvicinato alla residuata tavola e si stava rifocillando, ponendo fine al suo languore.
Improvvisamente la scena tornò a rianimarsi: si stavano ricordando, con l’aiuto di una piccola scatola che creava immagini su di un lenzuolo, alcuni momenti di una recente riunione, nel corso della quale uno dei presenti, un tal Mario, aveva ottenuto un prestigioso incarico (1).
Da tutti i presenti si levò una serie di applausi e complimenti unanimi e convinti verso l’illustre personaggio il quale, commosso, ringraziò e promise cose importanti. Fu poi la volta di un altro signore, Giancarlo, del quale furono ricordate notevoli imprese, che gli erano valse il conferimento di una medaglia d’oro (2). A questo punto, colui che sembrava essere il padrone di casa aggiunse, anche a nome della gentile e ospitalissima consorte, i suoi personali auguri, accompagnati dall’esortazione a tutti a trarre esempio dai fatti ricordati per una sempre maggiore e fattiva presenza agli impegni dell’associazione che, a quanto veniva illustrando, riguardavano sia gli individui che la società nella quale essi vivevano, anche con aiuti concreti.
Unanime fu il consenso e l’approvazione da parte di tutti, anche dal Blackwhite il quale, viste le condizioni in cui si trovava, provò l’impulso di balzare fuori dai cespugli per offrirsi, pronto ad essere aiutato, in tutti i sensi. Ma il timore di arrecare, con il suo aspetto e abbigliamento, stupore e sconcerto in tutti gli astanti e, forse, vedersi aizzato addosso un paio di servitori in giacca bianca, lo frenò.
Di soppiatto, così come era entrato, scivolò fuori dalla villa e riprese il cammino verso la Via Triumphalis, facendo attenzione a non farsi arrotare da qualcuna delle centinaia di carrozze senza cavalli e puzzolenti che lo sfioravano da tutti i lati. Mentre già pensava al viaggio di ritorno, rifletteva sulla circostanza che, se questi erano i leoni, i veri leoni e non quelli dei quali si favoleggiava come mangiatori di cristiani e re della foresta, forse non sarebbe stata cosa sbagliata, una volta rientrato nella natìa Canterbury, tentare di mettere in piedi un gruppo di persone che, in qualche modo, ricordasse quello di cui era stato testimone in quella località denominata “La Castelluccia”.
Ma questa è tutta un’altra storia.
Roma, 23 maggio 2010

“La Castelluccia” - Roma
(1) Trattasi del socio Mario Paolini, eletto alla carica di II Vice Governatore Distrettuale all’ultimo Congresso di Viterbo.
(2) Trattasi del socio Giancarlo Iachetti, al quale è stata conferita la medaglia d’oro quale vittima del terrorismo, per i fatti accaduti a Roma il 17 marzo 1977.

FESTA DELLA SOLIDARIETA’

La “Missione del Lions Club International”, promulgata sul finire degli anni novanta, recita così: “Creare e promuovere tra tutti i popoli uno spirito di comprensione per i bisogni umanitari attraverso volontari servizi coinvolgenti le comunità e la cooperazione internazionale”. Con il medesimo intendimento, chi scrive così chiudeva il suo contributo alla rubrica della rivista The Lion “Diamo idee…” con l’articolo “Dalle parole ai fatti”: “Cominciamo a fare politica, vivendo la vita della polis, prendendo coscienza delle necessità della società che ci circonda e nella quale viviamo, talvolta anche in maniera disattenta.” Si era all’inizio dell’annata 2000-2001 e il Presidente Dori stabilì il primo contatto con gli amministratori del XVIII Municipio di Roma e iniziò così un lungo cammino, formalizzato addirittura da una Carta di Gemellaggio, sottoscritta il 18 maggio 2002 dal Presidente del nostro Club Dott. Filippo Lucibelli e dal Presidente del XVIII Municipio On. Vincenzo Fratta. Poco dopo, e precisamente il 21 giugno 2002, in virtù di questo legame e a seguito di una delibera assunta dal Municipio, fu possibile intitolare al fondatore della nostra Associazione, Melvin Jones, un parco situato tra Via Aurelia Antica e Via Pietro De Francisci, nel cuore di quella parte di Roma che il nostro club, anche in omaggio al nome Aurelium, aveva individuato quale territorio sul quale concentrare la sua attività.
Oggi, a ormai dieci anni dall’inizio di una collaborazione sincera e proficua, della quale si vorrà di seguito ricordare, anche se in maniera incompleta ma con giustificato risalto, le iniziative che ne hanno contrassegnato il cammino, il Club Aurelium è tornato ad incontrare le autorità locali, organizzando con le medesime la “Prima Festa della Solidarietà”, in un ambiente che, dopo alcuni anni di abbandono durante i quali è stato oggetto di ignobili atti da parte di scellerate persone, ha ritrovato tutto il suo splendore grazie all’intervento dell’Associazione SolidAbile onlus, un sodalizio da tempo radicato nel territorio del XVIII Municipio e che persegue finalità esclusivamente di solidarietà sociale.
Un piccolo gruppo di ragazzi disabili, affiancato da due operatori, ha provveduto alla risistemazione del parco, rendendolo accogliente e pronto a ricevere un folto numero di persone che si sono ritrovate in un primo pomeriggio assolato e caldo, ricevuto dalle note della Banda Musicale del Corpo della Polizia Municipale che hanno allietato l’attesa della cerimonia ufficiale di inaugurazione di un cippo marmoreo, con apposta una targa in memoria di Melvin Jones, in sostituzione della precedente, asportata da ignoti vandali.
Percorrendo graziosi vialetti ombrosi e curatissimi, i presenti si sono poi spostati verso il centro del parco dove, tra attrezzature appositamente studiate per bambini, un gruppo di giovani, truccati da clown, intrattenevano i più piccoli con giochi e trucchetti vari. Corroborati nel corpo da un abbondante buffet, i partecipanti all’incontro hanno poi potuto assistere alla recita a memoria di brani di autori celebri, eseguita da un gruppo di donne chiamato “persone-libro”, lettrici che imparano a memoria brani di libri di autori famosi, che amano e vanno in giro a recitarli. Le varie declamazioni sono state seguite con attenzione e interesse e al termine sono state accolte da applausi e complimenti unanimi e convinti.
L’ultima parte dell’incontro è stata dedicata alla consegna, da parte del Presidente Mele, di “Borse di lavoro” alle persone che si erano impegnate nell’attività di giardinaggio, con risultati degni di lode. Sono seguiti vari interventi svolti da personalità lionistiche e amministrative presenti e che si elencano di seguito, chiedendo venia per eventuali non volute omissioni. Hanno onorato l’incontro con la loro presenza il Governatore distrettuale Giampiero Peddis, i Vice governatori Anselmi, Fuduli e Paolini, il Presidente di Circoscrizione Vecchione e molti officers distrettuali.
Era presente anche un folto gruppo di Soci del Club Aurelium con le loro consorti.
Le autorità amministrative erano rappresentate dall’assessore all’ambiente del comune di Roma Fabio De Lillo, dal consigliere provinciale Danilo Amelina, dal Presidente del XVIII Municipio Daniele Giannini e dagli assessori Vittorio Rapisarda e Patrizio Veronelli.
Mentre le varie personalità si avvicendavano al microfono sotto lo sguardo giustamente soddisfatto del nostro Presidente Mele, al cui lodevole impegno, assecondato dal suo team, si deve l’iniziativa e la riuscita della Prima Festa della Solidarietà e della quale ci si augura un puntuale prosieguo, a chi scrive sono tornate alla memoria alcune delle moltissime attività svolte a favore di associazioni e sodalizi operanti nel territorio del XVIII Municipio quali, ad esempio, il pulmino alla “Cooperativa Sociale Eureka” per il trasporto di anziani fragili; due defibrillatori, ai quali va aggiunto quello donato oggi; la realizzazione di una sala multimediale per disabili; la donazione di dieci personal computer a favore dei vari Centri anziani operanti nella zona; la fornitura, senza limiti di tempo, di generi alimentari alla Casa Famiglia “Valle Aurelia” che accoglie minori affidati dall’autorità giudiziaria in attesa che possano essere risolte difficili situazioni familiari e alla quale ogni anno il club Aurelium destina un contributo in danaro; un prefabbricato installato all’interno del mercato rionale del luogo e posto a disposizione della Croce Rossa Italiana quale locale per il pronto intervento sanitario; l’organizzazione di un incontro interclub con i presidi e i professori delle scuole superiori del XVIII Municipio su problematiche giovanili; la stesura di un quaderno sul rumore, dedicato agli alunni delle scuole elementari.
E mentre la gente sciamava verso l’uscita, lasciando malvolentieri quel luogo pieno di allegria e di frescura per tornare ad immergersi nella asfissiante calura di una città che si stava animando per il rientro dei pendolari della domenica, mi sono sorpreso a pensare che il primo decennio della collaborazione del nostro club Aurelium con i responsabili della politica e dell’amministrazione locali non può che lasciarci soddisfatti, proprio perché ritengo che, almeno in questa realtà, abbiamo preso “…coscienza delle necessità della società che ci circonda e nella quale viviamo, talvolta anche in maniera disattenta.”
Roma - Parco” Melvin Jones” 13 Giugno 2010

IL PASSAGGIO DELLA CAMPANA

E’ trascorso un anno.
E’ trascorso un anno da quella sera in cui, con mani tremanti e tanta emozione, ricevevi dal Presidente uscente la Campana e il Martelletto, i simboli tangibili di una carica che ti poneva al vertice di un gruppo di persone animate, come te, da spirito di servizio nei confronti del prossimo.
Quello stesso gruppo di persone amiche che ti aveva scelto per affidarti il compito di interpretare al meglio le finalità che le tiene unite, disegnando proposte e iniziative, indicando concrete realizzazioni, dare ancora più prestigio ad un Club che di prestigio ne ha da vendere.
Adesso questi stessi oggetti pieni di simbolismo stanno per lasciare le tue mani per essere raccolti da altre mani, altrettanto tremanti, di un amico che ti succederà nelle tue attribuzioni e animato dagli stessi propositi che albergavano nella tua mente. Questo è il punto: sei riuscito ad
operare in maniera tale da essere soddisfatto di te stesso e ad aver risposto alla fiducia che ti era stata accordata un anno prima?
Nei pochi secondi che il Cerimoniere dedica alla formula di rito che preannuncia lo scambio delle consegne, l’intera annata si srotola nella tua mente e la rivivi totalmente e con partecipazione piena, come un film velocissimo del quale riesci però a bloccare alcuni “ferma immagine” riferiti agli episodi più salienti e importanti della tua annata. Episodi talvolta anche non positivi perché, lo devi riconoscere, non sono mancate incomprensioni e critiche che ti hanno fatto male, specialmente se erano da ricollegare a tuoi momenti di stanchezza e che ti hanno fatto temere di vedere scossa la fiducia che il Club aveva riposto in te.
Qualche ora addietro ti stavi allacciando la cravatta nera e, davanti allo specchio, già stavi pensando a questo momento e non eri sicuro che saresti riuscito a tener ferma la voce quando dal microfono avresti pronunciato il tuo saluto di congedo. Ma a far tremare la tua voce non sarebbe stato il giusto orgoglio con il quale avresti elencato le tappe più importanti e significative della tua annata: in definitiva questo è quanto ci si aspettava da te.
Sarebbe stata un’altra cosa: cercare e trovare negli occhi che tutti i presenti avranno fissi verso di te lo stesso affetto che un anno prima si rivestiva di incoraggiamento e di augurio e che oggi vorresti assumesse l’aspetto del consenso e del ringraziamento.
E’ andata proprio così. E per questo ti sei commosso. Ma ora che stai consegnando al nuovo Presidente i simboli dell’autorità le tue mani non tremano. Sono ferme e lo sono perché debbono infondere coraggio e fiducia all’amico che dovrà percorrere lo stesso tragitto al quale tu stasera hai posto fine. E di cui devi essere orgoglioso perché anche se esso rappresenta soltanto un breve tratto del lungo cammino di una Associazione che si è messa in marcia nel lontano 1917, nella galleria dei Presidenti dei Lions Club rimarrà vivo il ricordo del tuo contributo, così come accadrà per il nuovo Presidente, al quale stai per consegnare la Campana. Non molto spesso ci si sofferma a riflettere sulla natura e la funzione di un Lions Club. Esso è la base, la cellula fondamentale dell’organizzazione lionistica e, quindi, nella sua articolazione territoriale la spina dorsale dell’Associazione. L’asse portante, la vita stessa dell’Associazione sono i Clubs, dove si realizza il contatto con la società con la quale e nella quale intende servire, percependone le esigenze, le aspirazioni, i bisogni attraverso il dipanarsi della vita quotidiana, concretamente, così come può accadere soltanto grazie alla sensibilità di persone che, volontariamente, proponendosi come Lions, hanno voluto porre a disposizione della società tempo e denaro, ma soprattutto intelletto e amore. Persone che, raggiunti altissimi traguardi sul piano professionale, privato o pubblico, e gratificate da non pochi riconoscimenti, non rincorrono attestati e promozioni, ma unicamente la gioia di alleviare un dolore, di suscitare un sorriso, di infondere una speranza.
Se questo è un Club Lions, ne consegue che il suo Presidente ne è l’organo sia di propulsione ed iniziativa che di coordinamento dei contributi di idee e proposte che via via vengono rappresentate.
Caro neo Presidente, sono trascorsi pochi mesi dalla tua elezione e, poiché conosciamo la tua preparazione lionistica, quanto affermato prima non ti sorprende. Per questo il tempo trascorso fino a oggi ti ha visto impegnato nel disegnare quello che ritieni possa essere il programma delle attività del nostro Club, nel solco della tradizione che lo contraddistingue, per la cui realizzazione chiamerai a collaborare tutti i soci e le loro Signore con contributi di idee, di pareri e, soprattutto, di partecipazione alla vita associativa. Quali collaboratori più vicini potrai, come i tuoi predecessori, contare sul totale impegno professionale dei tre soci che l’Assemblea, accogliendo i tuoi desideri, ti ha voluto affiancare.
Ma, soprattutto, potrai fare affidamento sulla tua dolce consorte, la quale ti accompagnerà passo passo in questo impegno che si presenta come un percorso foriero di gradite soddisfazioni ma, perché nasconderlo, anche di qualche contrarietà. E allora troverai accanto a te la pazienza, l’intuito, la riflessività, i consigli della compagna della tua vita e vedrai che l’ostacolo non ti sembrerà più insormontabile.
Il tuo discorso programmatico costituirà l’impegno non soltanto tuo, ma di tutto il Club, poiché sei assolutamente convinto che indicando i temi da trattare, gli incontri da svolgere, i services da realizzare hai interpretato fedelmente le aspettative dei soci che hanno riposto in te fiducia e affetto. L’attenzione verso quella parte di umanità che soffre, la riflessione su temi che appassionano la società nella quale viviamo, l’ampliamento del nostro bagaglio di conoscenze in campi normalmente non praticati nella nostra vita professionale, la migliore visibilità possibile sul territorio collaborando con le istituzioni nella loro attività di servizio rivolta al sociale e alla popolazione più bisognosa: saranno questi i cardini sui quali chiamerai il Club a muoversi. E non mancheranno anche momenti di vita spensierata, che forniranno a ciascuno di noi l’occasione di conoscerci anche in maglietta e jeans e non soltanto in cravatta nera!
Buon lavoro a te, Presidente! E anche a ciascuno di noi.
Roma, 2 luglio 2004
P.S.: Come risulta dalla data, questo articolo è stato scritto all’inizio della presidenza di Dino Manzaro e successivamente inserito nel suo “Diario di bordo”. Tuttavia presenta ancora tutta la sua attualità e, pertanto, lo ripropongo all’attenzione di tutti i lettori. In special modo in un identico momento della nostra vita associativa.

SECONDA PARTE

NOI E L'IMMIGRAZIONE

Caro Presidente, ti sono veramente grato di avermi designato quale coordinatore di un comitato operativo, anche se mi sono reso da subito conto che l’argomento assegnato alla nostra attenzione appariva estremamente delicato.
Delicato perché non soltanto di massima e palpitante attualità, ma anche perché destinato a toccare in ognuno di noi sentimenti e convinzioni che non desidero definire contrapposti, ma sicuramente non sempre collimanti.
Per questo mi sforzerò di trattarlo da una visuale la più obiettiva possibile, concedendo nulla o poco - almeno così spero - a valutazioni personali.
Credo che prima di tutto occorra dare un rapidissimo sguardo a quella che possiamo definire la genesi storico-politica del fenomeno “immigrazione”. Ovviamente qui si parla di immigrazione extracomunitaria. Perché popolazioni del cosiddetto Terzo o Quarto mondo sentono oggi irrefrenabile il desiderio di lasciare le loro terre e di approdare nel mondo industrializzato e, da noi definito, civilizzato? Quali sono queste popolazioni?.
Sarà un caso - ma forse non lo è! - ma si tratta, per lo più, di popolazioni che per decenni - in qualche caso per secoli - hanno subìto dominazioni coloniali da parte proprio del mondo occidentale in senso lato, europeo in particolare. Dobbiamo, nostro malgrado, riconoscere che quasi tutti i Paesi che hanno avuto un passato di colonialismo attivo hanno interpretato e praticato nella maniera più conveniente alle proprie finalità politiche ed economiche il loro ruolo di colonizzatori, esorcizzando e rifiutando, almeno fino alla conclusione del secondo conflitto mondiale, la eventualità che la loro permanenza in altri Paesi potesse avere caratteristiche di ciclo storico e quindi terminare. Quelle finalità e questo convincimento, uniti spesso all’altro, più deleterio, di considerare le popolazioni dominate razze inferiori, hanno fatto sì che mentre da un lato il Paese dominato rappresentava un serbatoio per soddisfare esigenze economiche (materie prime, braccia a basso costo, etc.) e politiche (reclutamento militare), dall’altro lato tenue o addirittura inconsistente si mostrasse la volontà di contribuire alla sua elevazione sociale.
Già sento serpeggiare tra i presenti reazioni di dissenso, specialmente in chi ha avuto esperienze di vita in Paesi del Continente africano. Tengo però a sottolineare che non intendo assolutamente sollevare indici accusatori verso chicchessia: anzi, sicuramente il nostro Paese nella classifica delle nazioni miopi non occupa il primo posto e neppure è tra i primi. Ma ciò non vuol dire che, nella sua complessità, il fenomeno non abbia riscontri storici obiettivi. E quando parlo di elevazione sociale intendo riferirmi non soltanto a opere che tale natura rivestono (case, ospedali, scuole, fabbriche, strade e così via), ma anche - e, oserei dire, soprattutto - alla formazione di una classe dirigente autoctona alla quale affidare, durante e dopo la dominazione, il governo amministrativo del Paese.
Sicuramente ciò ha rappresentato il lato più negativo al quale si possono far risalire, in massima parte, le difficoltà che oggi angustiano i paesi sottosviluppati: una fabbrica, una strada, un ospedale si possono realizzare in un breve numero di anni (non in Italia!); per formare una classe dirigente molte volte non basta una generazione. Ecco allora all’indomani della conseguita o conquistata indipendenza (assai spesso con grande spargimento di sangue e fomentazione di odii insanabili), abbiamo visto, accanto a scene di profonda miseria e di inconcepibile abbandono, venire alla ribalta figure losche, prive di scrupoli, sanguinarie le quali, muovendosi in un tessuto politico-sociale pressoché inesistente e con la complicità degli antichi dominatori, l’hanno fatta da padroni.
Non cito nomi perché rischierei di provocare incidenti diplomatici. Ma essi sono presenti alla memoria vostra e mia. La nostra cultura (nostra in senso lato) fondamentalmente cristiana e quindi votata al perdono - specialmente nella parte che recita “rimetti a noi i nostri debiti”!!! -
non poteva rimanere insensibile di fronte allo spettacolo offertoci quotidianamente dall’informazione.
Ecco quindi la corsa all’aiuto ai bisognosi. Ma poiché la politica dei governanti ha bisogno anche di spettacolo, questo poteva essere garantito dalla visione di navi ed aerei stracolmi di viveri e medicinali: beni senz’altro utili. Ma un po’ meno pieni di interventi più mirati e logici, che non lasciano un segno immediato. Senza contare che talvolta si è trattato di cose delle quali ci si voleva disfare! Voglio dire che se la nave che partiva per l’Africa fosse stata riempita per
metà di viveri e per l’altra metà di attrezzature destinate a procurarsi autonomamente nel tempo i viveri stessi, sicuramente oggi qui parleremmo d’altro. E non si venga a dire che questo avrebbe avuto valore di confetti dati ai porci: l’intelligenza e la volontà, se opportunamente educate e sviluppate, non sono patrimonio esclusivo di una pelle colorata o meno.
D’altronde che simili atteggiamenti di soccorso rispondano più ad esigenze politiche che sociali (o quanto meno le prime sono più sentite delle seconde) lo dimostra il fatto che proprio in questi giorni il nostro Ministero degli Esteri, sempre prodigo di pubblico denaro in ogni angolo del mondo, improvvisamente, sotto la spinta degli avvenimenti dell’Est europeo, ha più che dimezzato il proprio contributo ai progetti dell’ONU per dirottarlo al finanziamento di futuri “Piani Marhall” destinati ai Paesi ex comunisti.
E non parliamo poi delle somme ingenti erogate senza controllo alcuno e che sono servite in massima parte ad armare le bande dei non sullodati personaggi e ad impinguare i conti svizzeri dei personaggi medesimi e, sotto forma di tangenti, di quelli che si rendevano complici della destinazione di morte.A questo punto come è possibile pensare di frenare l’umano legittimo desiderio di popolazioni povere da sempre di tentare di dare una svolta alla loro condizione, muovendo i loro passi verso una società della quale conoscono tutto, ma più di tutto l’opulenza?
Il nostro pianeta, che ha ormai assunto le caratteristiche di un villaggio globale, non ha più segreti per nessuno: radio, televisione, cinema, stampa, rapidità negli spostamenti ne sono state, e ne sono, cause propulsive. E l’Italia? Anche il nostro Paese ha conosciuto, agli inizi del secolo, il fenomeno della emigrazione; certamente alla base non vi erano tutte quelle ragioni che prima ho elencato, ma alcune sicuramente si.
Prima fra tutte l’estrema povertà nella quale versavano le popolazioni del nostro Sud, alla quale aggiungere la conoscenza, sia pure indiretta e sfumata, dell’esistenza di paesi nei quali almeno un lavoro era possibile trovarlo. E poi, non dobbiamo vergognarci di ammetterlo, la presenza di una classe dirigente estranea, imposta a seguito dell’unità nazionale, da una classe politica che dei problemi del Mezzogiorno aveva scarsa e preconcetta conoscenza. Ma ecco che il nostro contributo alla valorizzazione dei nuovi mondi (stimato tra i cinque e i sei milioni di persone)
dopo il 1950 si esaurisce - anche se continua all’interno del nostro Paese - e inizia il flusso inverso.
Esaminate, sia pure sommariamente, le motivazioni che spingono le popolazioni del Terzo mondo ad emigrare, ora dobbiamo chiederci perché prediligono il nostro Paese o almeno così sembra dal nostro osservatorio di interessati. In parte può accadere perché il nostro livello economico e il nostro tenore di vita rappresentano traguardi ambitissimi per molti popoli, e non soltanto del Terzo mondo.
Ma solo in parte, perché se pensiamo che il reddito pro-capite del nostro Paese è almeno venti volte più elevato di quello dei Paesi di provenienza degli immigrati, uno spostamento che obbedisse soltanto a motivazioni economiche assumerebbe dimensioni bibliche.Evidentemente vi è dell’altro. Non è assolutamente il caso di soffermarci sulla figura del rifugiato politico: questa dà maggiori preoccupazioni, anche se molto limitate, più sul piano della qualità che della quantità.
E’ che noi non possiamo completamente seppellire la memoria storica rappresentata dalla nostra emigrazione: quanti emigranti o loro diretti immediati discendenti sono ancora vivi in Italia a ricordare a se stessi e agli altri le sofferenze patite? Come pure la diffusa cultura cattolica che si concretizza nel rispetto e nell’aiuto ai diseredati - e qui recupero, pertinentemente, la seconda parte della preghiera: “come noi li rimettiamo ai nostri debitori” -.
Ancora: esiste una giustificazione socio-economica secondo la quale la immigrazione avviene in pratica solo nell’interesse dei Paesi di immigrazione, afferma Massimo Livi Bacci, ordinario di demografia a Firenze. E questo perché l’economia dei paesi sviluppati è al settimo anno di espansione, la disoccupazione sta decrescendo, le popolazioni invecchiano rapidamente, la domanda di lavoro nei servizi sarà probabilmente crescente.
Tutto vero questo? Riconosco di non essere sufficientemente preparato per una risposta.
Ma una cosa è certa: qualora fosse vero, il nostro Paese dovrebbe allora munirsi di adeguati strumenti per regolamentare questo fenomeno.
Oggi nessuno strumento esiste se non quello rappresentato dall’art.142 del Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza del 18 giugno 1931: dico bene, 1931, più vecchio di me!!! a parte la necessità di superare pregiudizi nazionalistici e difficoltà di lingua e di frontiera, oggi assolutamente anacronistici, occorre anche realizzare un coordinamento con le legislazioni degli altri Paesi, europei e non, che regolamentano la materia.
La legge 943 del 1986, destinata a sanare situazioni di illegalità è servita a poco o niente: anzi si può affermare che è servita più ai datori di lavoro per sanare, senza penalità, esposizioni contributive. Non è servita perché contemplava la coda del problema e non il suo manifestarsi e prendere piede. Agli immigrati ha fornito l’occasione, invece, di suonare una specie di tam-tam
sintonizzato su lunghezze d’onda interessate per far conoscere che in Italia era possibile entrare e rimanervi a proprio piacimento.
Questo atteggiamento delle nostre autorità non significa affatto democrazia: perché allora dovremmo dire che la Svezia, dove chi è entrato come studente e viene trovato a fare altro senza permesso viene gentilmente ma fermamente accompagnato alla frontiera, dovremmo dire che la Svezia non è un paese democratico.Tale stato di cose esistente in Italia e cioè di non politica, può senz’altro fungere da terreno di coltura per situazioni negative: accattonaggio, abusivismo commerciale, vagabondaggio, minicriminalità, prostituzione, spaccio di droga e così via. Però, lasciatemelo dire, non radicalizziamo troppo il problema. Chi entra in Italia non necessariamente, perché non è di pelle bianca, porta con sé un bagaglio di criminalità latente. Anzi, se la cultura costituisce un insito deterrente alla manifestazione di atteggiamenti contrari alla legge, dovrebbe rassicurarci, almeno in parte, apprendere che uno studio condotto dall’ISPES ha rilevato che l’81
per cento degli immigrati è in possesso di un grado di istruzione che va dalla media alla laurea.
Soltanto il 4 per cento è analfabeta. Veleggiamo su valori nazionali! Certo per arrivare, come fa il Partito comunista (o quasi) italiano, nella affannosa ricerca di nuovi proseliti, a ipotizzare una società plurietnica, ce ne vuole; però non mi convince neppure l’affermazione di Francesco Alberoni secondo il quale la nostra emigrazione era tutt’altra cosa, perché i nostri nonni erano bianchi e cattolici e questi invece sono di colore, di religione islamica, faranno i lavori peggiori, accumuleranno frustrazioni e risentimenti.
Forse abbiamo dimenticato che Al Capone e soci avevano un cognome italiano e che noi abbiamo esportato braccia operose e menti geniali, nel bene e nel male.
Però a me piace chiudere questo mio intervento non in chiave polemica, bensì ricordando, a me stesso per primo, che all’occhiello porto un distintivo di appartenenza ad una associazione internazionale che ha, nel suo codice etico, una proposizione, la sesta, che mi impone di “Essere solidale con il prossimo mediante l’aiuto ai deboli, il soccorso ai bisognosi, la simpatia ai sofferenti.”.
Intervento svolto alla Pergola dell’Hotel Hilton la sera del 1° Giugno 1990

CULTURE

La prima reazione in me suscitata dalla lettura del tema congressuale proposto è stata di grande meraviglia, considerando che, assegnando ai cinque relatori ufficiali appena sessanta minuti alla trattazione di un tema così arduo e impegnativo, si sarebbe dovuto fare affidamento su oratori preparati e in possesso di poteri di sintesi talmente elevati da consentire loro, in un breve lasso di tempo, di illustrare e commentare le varie culture presenti e, perché no?, passate, vagliandole e giudicandole al fine di formulare una proposta di scelta verso “…il modello più idoneo per una società moderna, globalizzata, in continuo e veloce divenire.” Comunque il tema mi è apparso subito stimolante e, quindi, mi accingo a tentare l’avventura di una riflessione, certamente non all’altezza di tanti dotti interlocutori.
Tuttavia ci provo, dopo aver dedicato un po’ del mio tempo di pensionato a letture, consultazioni e anche a qualche lontano ricordo che mi ha fatto tornare alla mente le sudate carte di Nicola Abbagnano e di Paolo Lamanna. Cosa si deve intendere per cultura? La risposta data dal mondo ellenico era la conoscenza di se stesso e della comunità in cui si vive e ci si realizza, ottenuta attraverso le buone arti della poesia, dell’eloquenza e della filosofia, così come affermavano Platone e Aristotele. Concetto che peraltro escludeva qualsiasi attività utilitaria, affidata a schiavi e servi e, quindi, elitario ed aristocratico.
Concetto in parte ripreso nel Medioevo per preparare l’uomo ai suoi doveri migliori e alla vita ultramondana, utilizzando principalmente come strumento la filosofia, ritenuta idonea allo scopo, al punto da potersi sintetizzare nel detto “philosophia ancilla theologiae”.
Il carattere aristocratico della cultura, mantenuto ancora durante il Rinascimento, venne posto in discussione dall’Illuminismo e l’Enciclopedia francese fu la massima espressione della tendenza di ritenere la cultura non già patrimonio dei dotti, ma rinnovamento della vita sociale e individuale in un ideale di universalità che, per noi moderni, costituisce l’aspetto essenziale della cultura. Giunti a questo punto con la brevissima disamina storica, cerchiamo di individuare quale tipo di cultura dovremmo oggi privilegiare, tentando così di rispondere al quesito posto nel tema congressuale.Una risposta auspicabile è nella formazione armonica ed equilibrata dell’uomo come tale, la più completa possibile, autenticamente aperta - in altre parole, umana - che si richiami in qualche modo alla classica “paideia” greca.
Non va dimenticato, comunque, che la cultura comprende anche il comportamento che l’individuo acquisisce quale membro di una società, perché la cultura è patrimonio di una società e non l’elaborazione personale ed esclusiva di individui. E lo è al punto tale che qualche studioso fa coincidere i due termini di società e cultura.
Infatti, alla base di qualsiasi cultura esistono quelle che gli etnologi chiamano “idee generali” e cioè credenze, capacità, abitudini, modi di agire e tutto quanto altro ancora contribuisce a determinare un ambiente che preesiste all’individuo e lo condiziona. E in tale ambito è bene ricordare che una caratteristica della cultura è quella di essere transgenerazionale e cioè la possibilità di trasmettere, all’interno della società, i propri modelli culturali: operazione indispensabile, perché una cultura è viva e formativa soltanto se, diretta verso l’avvenire, rimane ancorata al passato.
Mi sia permessa una orgogliosa autocitazione. Nella prima pagina del libro dedicato al 40° anniversario del Club Aurelium, al quale ho conferito qualche contributo, è possibile leggere la frase “Per andare avanti, qualche volta bisogna guardare indietro.” E allora andiamo avanti.
Abbiamo appena auspicato per l’uomo una formazione armonica ed equilibrata, autenticamente aperta. Avremo, così, un uomo colto (inteso nel termine fin qui esposto), dallo spirito aperto e libero, pronto a comprendere idee e credenze altrui, anche quando non può accettarle, in quanto non ne riconosce la validità. Comprenderà anche l’esistenza di quelle “idee generali” proprie e altrui delle quali prima si è detto, che non potrà né imporre arbitrariamente, né accettare con passività in forma di ideologie istituzionalizzate, ma che invece dovrà adoperarsi acciocché si formino in modo autonomo e continuamente commisurate alle situazioni reali. Prego di voler tenere bene a mente questo passaggio, che troverà spazio anche in seguito. Però, prima tentiamo di rispondere al quesito tematico e cioè dibattiamo sulle culture, perché alla fine si possa passare alla scelta del “modello più idoneo per una società moderna, globalizzata, in continuo veloce divenire”.
Ma è possibile conseguire, sia pure in via di ipotesi di scuola, un simile risultato? a quanto detto prima circa la esistenza di “idee generali” e originali alla base di qualsiasi cultura, occorre aggiungere quello che affermava il filosofo Ernst Cassirer in tema di sviluppo antropologico: “L’uomo non vive in un universo puramente fisico, bensì in un universo simbolico, dove lingua, mito, arte e religione sono i vari fili che compongono il tessuto simbolico, il complicato tessuto dell’esperienza umana”. E un modello culturale è tanto più efficace quanto più, in assenza di alternative, risulta interiorizzato e trasformato in automatismo inconscio.
A questo punto, dobbiamo inevitabilmente prendere atto che nel mondo abitato esistono varie culture, tutte nate, sviluppate, incardinate, interiorizzate e trasmesse in modo autonomo.
Ma altrettanto inevitabilmente dovremmo forse prendere atto che sono ugualmente vissute e praticate in forma ermeticamente chiusa al punto tale che non se ne possa ipotizzare la loro cancellazione e sostituzione con altra? In una società moderna e globalizzata è ancora possibile accettare questa immagine? Personalmente ritengo che una cultura, intesa così come si è tentato di definire in precedenza, non possa e non debba essere oggetto di violenza tendente a modificarla o, addirittura, ad eliminarla sostituendola con altra. Sarebbe come tentare di introdursi nel DNa di un individuo per modificarlo a proprio piacimento, adducendo motivi di miglioramento. Miglioramento, ma a giudizio di chi? Tuttavia non possiamo ignorare una circostanza di enorme portata e cioè quel fenomeno che va sotto il nome di globalizzazione che, specialmente sotto la spinta inarrestabile dei nuovi media della comunicazione, ha scardinato quella chiusura ermetica dalla quale le culture territorialmente erano avvinte. Quelle formazioni culturali, fino a ieri separate, sono ormai intrecciate anche al di là delle barriere linguistiche, al punto tale che ogni popolo è diventato vicino di qualsiasi altro e ciò che accade in un punto del globo coinvolge con immediatezza l’intera popolazione mondiale.
E tutto ciò è positivo, specialmente se l’intreccio è foriero di comune presa di conoscenza e coscienza di problematiche locali alle quali è possibile porre rimedio soltanto, o più facilmente, collaborando. Però siamo molto lontani dall’ipotesi di una cultura unica. Anzi, si tenta di prefigurare qualcosa molto differente.
Recentemente ho letto su un quotidiano un interessante articolo di uno scrittore tedesco nel quale si affermava che la globalizzazione si presenta non tanto come “…integrazione di contesti di azione e di esperienza al di là dei confini degli stati nazionali”, come in definitiva dovrebbe essere. E per ora mi fermo qui nella citazione e dichiaro che condivido in pieno l’affermazione circa quello che la globalizzazione dovrebbe rappresentare, anche in omaggio a quanto prima chiarito in tema di validità e difesa non preconcetta delle culture. A questo punto mi sorge un dubbio e mi scuso nell’ipotizzare quanto appresso. Probabilmente nel proporre il tema congressuale, più che alle culture si voleva far riferimento alle civiltà. Se così è, allora il discorso è alquanto diverso e un po’ scivoloso, anche perché, sia pure in forma problematica, nel tema se ne auspica il modello più idoneo e, quindi, lo augura unico per tutti. Comunque, anche così ipotizzato, non è che dibattere sulle culture vuol dire ignorare le civiltà, perché la civiltà, nella evoluzione della cultura di una società, ne costituisce l’ultimo stadio. Secondo il pensiero filosofico e sociologico tedesco di fine ‘800, la civiltà è una fase della stessa cultura, cui fa seguito secondo uno schema di sviluppo ben definito. Però, conseguita questa fase di sviluppo, si pone una domanda: cosa si intende per civiltà compiuta e, quindi, da imitare e, addirittura, da imporre? Un patrimonio fondato prevalentemente sulla cultura tecnica? Oppure su quella intellettuale? Oppure morale?
E’ evidente che tutti questi elementi concorrono insieme a formare un uomo veramente civile, anche se a qualcuno è sembrato opportuno di poter sostenere che la civiltà è tanto più compiuta quanto più alti sono il complesso tecnologico e materiale, nonché la relativa attrezzatura, oppure i prodotti intellettuali di cui dispone una società. Se questo fosse vero, riferendoci ai prodotti intellettuali, l’Italia, con il suo patrimonio artistico e culturale, dovrebbe considerarsi il Paese più civile del mondo! Per contro, altri Paesi dovrebbero essere additati come modello di alta civiltà da privilegiare perché in possesso di tecnologie e attrezzature incomparabili, anche se poi magari praticano ancora la segregazione razziale e la pena di morte.
Forse sarebbe auspicabile, perché necessario, un virtuoso mix di tutti i patrimoni sopra citati. Purtroppo la globalizzazione si presenta (e qui riprendo la citazione interrotta poco prima)
“…come la competizione…per il potere di santificazione della giusta via, il potere di definire cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa è buono e cosa è cattivo, cosa è rischioso e cosa è sicuro.
Gli stati che ambiscono a un ruolo egemone (e qui ometto gli stati citati. N.d.A.) si considerano non soltanto nazioni, ma movimenti morali che additano la via all’umanità.” E questo dovrebbe essere accettato? Quale corte giudicante potrebbe d’imperio riconoscersi legittimata ad esprimere quel giudizio di idoneità cui, stando al quesito congressuale, sembra auspicabile doversi arrivare? Ma che forse globalizzazione vuol significare uniformarsi?
Certamente non mancano esempi di uniformità necessitata (vedi la lingua inglese nel controllo del traffico aereo) o di uniformità auspicata (vedi le iniziative che attengono alla lotta alla fame e alla povertà nel mondo). Ma da qui ad auspicare un modello comportamentale unico idoneo per tutta l’umanità ce ne passa di strada.
Mi piace chiudere queste riflessioni riportando quanto ho potuto leggere in un box pubblicato a pagina 14 dell’ultimo numero di “Lionismo”. “La nostra abiura per le graduatorie fra le culture è totale. Non ci sono apodittiche e generali superiorità. Tuttavia esistono tutele e principi strettamente connessi con la natura umana e con il progresso universale la cui compressione fortemente deprime il livello civile e culturale nella sua complessità.” Affermazioni cui aderisco totalmente e con entusiasmo.
Tutto ciò da me affermato e chiarito è racchiuso in queste poche righe, che costituiscono, a mio modesto avviso, il suggello più definitivo ed efficace che poteva essere posto all’ambizioso e un po’ spericolato tema congressuale.
Roma, 26 novembre 2006 - Congresso d’autunno - Pomezia Pubblicato sul n° 3/2007 di “Lionismo”

RIFLESSIONI.... D'ESTATE

Caro Dino, come ormai in molte altre circostanze ti ho messo a parte di alcune mie riflessioni, anche questa volta dovrai sopportarmi e ti prego di scusarmi.
La settimana che andava dal 25 al 31 agosto sono andato con Cira a trascorrere alcuni giorni in un agriturismo, nei pressi del lago di Bolsena, dal nome che era tutto un programma: “Agriturismo Buonumore”! A pochi chilometri da Acquapendente e con molti dintorni interessanti sia dal punto di vista turistico che gastronomico, ha consentito a Cira e a me di allontanare da noi la fatica, anche morale, alla quale abbiamo soggiaciuto per circa due mesi affrontando la vicenda di Gerano. Ma non è su questo che voglio intrattenerti.
Il giorno stesso in cui siamo arrivati, nel metterci a tavola per il pranzo, ci siamo trovati a stretto contatto di gomito con un gruppo di almeno sedici-diciassette persone, otto delle quali portatrici di handicap più o meno gravi, assistite dalla ASL RM4 a mezzo di una cooperativa sociale.
Vi erano persone, prevalentemente giovani, completamente raggomitolate dentro ad una carrozzina; altre che per camminare dovevano essere sostenute e insieme guidate, perché anche non vedenti; altre ancora dall’aspetto quasi normale, ma che calzavano un caschetto protettivo in quanto, evidentemente, soggette a crisi di natura epilettica che avrebbero potuto danneggiarle.
Mi fermo qui, anche perché tutti conosciamo i vari aspetti con i quali si presentano gli handicap
che possono aggredire una persona. Posso affermare in totale verità - e devi credermi, perché conosci bene sia Cira che me - che la circostanza non ci ha assolutamente creato né disagio né curiosità: la nostra vita si dipana anche attraversando momenti del genere, perché ad essa loro appartengono e ci accompagnano e ci aiutano a capire quanto dolore ci circonda e del quale, molte volte, ci rifiutiamo di prendere atto.
Ma quel che ha destato il nostro interesse e la curiosità è stato l’atteggiamento degli accompagnatori nei confronti delle persone affidate alle loro cure. Premetto che, tranne una signora di circa cinquant’anni che, evidentemente, era la responsabile del gruppo, tutti gli altri erano giovanissimi, tra i venti e i venticinque anni, ragazze e ragazzi. Tra gli altri un ragazzo nero, con un fisico che non aveva nulla da invidiare a quegli atleti che si erano esibiti nei Giochi olimpici appena conclusi! La professionalità mostrata nelle varie situazioni di crisi cui andavano spesso soggette le persone assistite era tale da lasciare stupiti: precisi e tempestivi, appropriati e veloci, gli interventi degli assistenti si sono sempre svolti, nella sala che accoglieva durante i pasti fino a cento persone, con una tale discrezione da passare quasi inosservati. Comunque senza che mai fossero esternate insofferenze da parte degli altri ospiti.
Una ragazza, raggomitolata nella sua carrozzina e priva di qualsiasi mobilità degli arti, veniva imboccata da un ragazzo, il quale accompagnava i suoi gesti con carezze e baci sul viso dell’assistita per invogliarla a mangiare. Un’altra ragazza, ogni qualvolta si siedeva a tavola, si sfilava le scarpe ed era un problema costringerla a reinfilarle; una volta una assistente ha passato buona parte del pranzo china sotto la tavola nel tentativo di recuperare le scarpe che, sistematicamente, venivano allontanate con violenza. Quando un ragazzo venne colto da una crisi isterica con urla e movimenti pericolosi per sé e per gli altri, non puoi immaginare le cure delle quali divenne oggetto: carezze e abbracci affettuosi accompagnati da frasi dolcissime modulate con nenie che probabilmente neppure una madre sarebbe stata in grado di inventare e cantare.
Ma i momenti più belli erano quelli in cui, nel corso della mattinata o nel pomeriggio, tutto il gruppo al completo si radunava sotto la chioma di pini secolari e si intratteneva con giochi e canti, nella calma più completa, in piena e totale serenità. Evidentemente il canto deve avere un potere calmante e quelle persone così sfortunate recuperavano moltissimo della loro naturalità così gravemente offesa, tanto da apparire non dico normali, ma certamente più lontane dalla loro quotidiana condizione di malati.
Tutto quanto ti ho narrato, e del quale Cira ed io siamo stati testimoni per molti giorni, ha suscitato in noi non soltanto grande ammirazione per l’abnegazione posta in atto dagli assistenti, ma anche grandissima commozione nel vedere quale legame di affetto si era stabilito tra persone bisognose di ogni genere di aiuto, anche il più intimo, e persone che stavano dedicando tempo, intelletto e amore a chi di questo aiuto necessitava.
La nostra commozione ha raggiunto il punto più alto la sera in cui, dopo la cena, due artisti, con il solo aiuto di chitarre, hanno riproposto all’ascolto dei presenti tutta una serie di canzoni di Battisti, Venditti, De Gregorio e altri cantautori di quella generazione, accogliendo anche richieste da parte del pubblico. Ebbene: un assistito, di circa una una quarantina di anni, con in testa un caschetto da ciclista e con difficoltà di parola, è rimasto in piedi fino a quando non è stata accolta la sua richiesta di sentire la sua canzone preferita. E quando il motivo ha iniziato ad
uscire dagli altoparlanti, è rimasto in piedi e ha preso ad accompagnare il motivo ripetendone le stesse parole, ma con un atteggiamento così ispirato e commosso che mi ha fatto pensare che nella sua mente qualcosa si stava risvegliando e lo stava riconducendo indietro a rivivere attimi già vissuti. La stessa sensazione debbono aver provato anche due ragazze assistenti: si sono avvicinate alla persona con il caschetto giallo, gli hanno circondato con le braccia la vita e le spalle e il terzetto, così abbracciato, ha cominciato a dondolarsi come si usa fare tra il pubblico nei concerti di canzoni.
Ho sentito salirmi alla gola e al naso un groppo pieno di lacrime. Ho guardato in viso Cira: a lei le lacrime erano già arrivate agli angoli della bocca. Più tardi, seduti sulla veranda davanti al nostro alloggio, nel buio più completo ed essendo passata la commozione che ci aveva scosso, Cira ed io abbiamo cominciato a riflettere a voce alta sull’esperienza che stavamo vivendo e siamo arrivati a parlare di volontariato, anche del nostro volontariato di Club e ci siamo chiesti più di una volta se veramente lo stiamo applicando. Certamente quei ragazzi che stavano assistendo persone variamente non abili avrebbero ricevuto una mercede. Ma non era quello il problema: a nessuno di noi viene chiesto esplicitamente di affrontare direttamente e in prima persona situazioni siffatte. Comunque, che male ci sarebbe? La domanda sorge quando assistiamo (e leggiamo sulla nostra stampa) ad atteggiamenti che creano in me - e in molti altri ancora - stupore e sconcerto per la supponenza e il sussiego con cui si affrontano eternamente, nelle assise più alte e da personaggi noti da sempre, argomenti vacui e privi di qualsiasi concretezza, rivolti unicamente a perpetuare una autoreferenzialità dura a morire.
Dove troviamo un afflato di volontariato in simili comportamenti?
E ho ricordato quello che compare nel libro che celebra il quarantennale del Club, laddove si legge che se vogliamo essere concretamente volontari, occorre volare a vista, per avere “…una percezione più netta e precisa….della vita quotidiana …accanto a noi, palpitante di gioie e di dolori, di colori e di ombre, di lamenti, di odori”. Così come Cira ed io la stavamo vivendo in un agriturismo dal nome invitante: “Buonumore”! Paura di sporcarsi le mani? Perché mai?
Ma il lionismo di Melvin Jones non era proprio questo? Anche se oggi lo si ricorda quasi con supponente distacco qualificandolo assistenziale e caritativo, ancora “…oggi troppo spesso prediletto da molti Lions…., umanitario, certamente più semplice e meno faticoso ma che non dà motivazioni e gratificazioni sufficienti”. Parole pronunciate in un recente Forum da un nostro Past Governatore Distrettuale, al quale vorrei chiedere in quale altra iniziativa “non umanitaria”, da lui o da altri assunta finora nel corso della sua non breve vita lionistica, abbia trovato motivazioni e gratificazioni, escluso forse l’anno del suo governatorato.
Caro Dino, rileggiamo insieme alcune righe di quel libro che tanto ci ha affaticato, ma che alla fine ci ha riempito di gioia. “Herman Hesse introduce nella mente di Narciso il dubbio che forse era più difficile, più doloroso ma più nobile camminare per i boschi e le strade maestre, soffrire il sole e la pioggia, la fame e la miseria, come è accaduto a Boccadoro, anziché, come ha fatto lui, condurre una vita regolata dalla campana che chiama alla preghiera e pensando che l’uomo è stato creato per studiare Aristotele e Tommaso d’Aquino”.
Ti saluto con affetto.
Enzo Roma, 9 settembre 2008
Pubblicato sul n° 6/09 di “Lionismo”

RIFLESSIONI.. OSPEDALIERE

1) Puntine d’ago.
Ancora una volta sono tornato a soggiornare presso l’Ospedale S.Pietro Fatebenefratelli sulla Via Cassia. In questa occasione trattasi di protesi dell’anca destra. Se non ricordo male, dalla prima volta che vi misi piede sono trascorsi almeno quattro anni e, pensavo, certamente molte cose nel frattempo saranno cambiate, anche nel vitto. Pertanto, più con curiosità che con ansia ho atteso il vassoio contenente il pranzo, composto invariabilmente da “vitto iposodico, ipocalorico…” e via di questo ipo-passo, anche ipoquantitativo, e cosa ti trovo nella minestrina?
Puntine d’ago, così come quattro anni orsono. Allora mi sono chiesto: ma quante tonnellate di queste puntine d’ago furono acquistate a suo tempo? Quando mai verranno smaltite? Quanti altri ricoveri dovrò praticare prima di passare, ad esempio, ai peperini?
2) All’olio.
Alcuni dei vari contorni che accompagnano i secondi piatti compaiono sul mini- menù, appoggiato sul vassoio, con accanto la scritta “all’olio”. Ho riflettuto su questa espressione e, una volta scoperchiata la pietanza, più che paragonarla ad una pura e semplice constatazione di una circostanza inesistente (l’olio), sembrerebbe una vera e propria esortazione a raggiungere un obbiettivo (All’olio! All’olio!), come lo fu, a suo tempo, quella garibaldina “A Roma! A Roma!”.
Entrambe hanno avuto identico destino: frustrate e inascoltate.
3) Personale paramedico e ausiliario.
Ascoltando con atteggiamento indifferente il personale paramedico e ausiliario che il mattino presto invade la tua camera mettendola sottosopra e rivoltando anche te come un calzino, hai la possibilità di renderti conto di come la loro vita è organizzata. La squadra composta di giovani, oltre a chiedere che durante le operazioni la tv della stanza venga sintonizzata su di una stazione che trasmette musica 24 ore su 24, cosicché tutto viene portato avanti con urletti, mugolii e contorcimenti vari, inizia a scambiarsi notizie e previsioni circa la vita più o meno sentimentale che conducono fuori dell’ospedale, parlando di discoteche, di proposte di incontri, di conseguenti performance vissute o già in programma e via di seguito. Il tutto con grande tuo scorno, visti sia l’età che lo stato di infermità nel quale ti trovi. Altri sono invece gli argomenti trattati dalla squadra dei meno giovani: ingrugniti, quasi in perpetuo inc…avolati, parlano sempre dei loro guai familiari, di soldi che non bastano mai, di figli che ti scappano da tutte le parti, di coniugi fannulloni e distratti al punto che si meriterebbero un bel paio di corna e via di seguito.
A questo punto ti fai un rapido esame di coscienza, ti consoli e la partita, per quanto ti riguarda, finisce in parità.
4) Il Socio gentile.
La notizia del ricovero si deve essere sparsa in giro e iniziano ad arrivare telefonate di solidarietà e di richiesta di notizie e previsioni. La più gentile e “gradita”, considerati gli orari e le abitudini ospedaliere, è arrivata una sera alle dieci e quaranta allorquando, a luci spente, tranne quella notturna, stavi dolcemente scivolando in quel tratto di sonno che sapevi non sarebbe durato molto: presto sarebbero iniziate le scampanellate di chiamata, i lamenti, altri rumori di fondo di incerta provenienza. Il tutto accompagnato dalle sacramentazioni degli infermieri, distolti dalle loro pennichelle.
Il carissimo Socio, che ringrazio ancora una volta, probabilmente sarà rimasto anche alquanto perplesso circa il mio stato di salute e, chissà, avrà formulato anche qualche pensiero funesto, sentendo al telefono una voce assonnata e deformata da un byte respiratorio. Comunque grazie affettuose.
5) Glicemia.
L’ esame del sangue introduttivo ha segnalato qualche punto di glicemia oltre il cento; cosicché da quel momento in poi tutti i giorni e per almeno tre volte si è presentato qualcuno con un ago per pungerti un polpastrello delle dita di una mano, spillarne una goccia di sangue e procedere alla misurazione. In capo a tre giorni mi si erano fatte tutte le dita delle mani; cosicché, all’omaccione che mi stava per infilzare per l’ennesima volta ho proposto di passare alle dita dei piedi.
Non sto a descrivervi lo sguardo inceneritore del boia che, evidentemente, non aveva apprezzato la battuta. Allora ho tentato di rifugiarmi in corner dicendo: “Ma se continua così non potrò più suonare il pianoforte.” Mai suonato, ma tant’è!
Reazione: “E allora er tamburo che ce sta a fa’?” 6) L’officina.
E’ il giorno dell’intervento, praticato in anestesia locale con puntura epidurale e, pertanto, con la possibilità di percepire distintamente voci e rumori. Debbo dire che l’equipe chirurgica è rimasta molto silenziosa: segno che lavorava insieme da molto tempo e gli inviti del capo più che essere esplicitati, potevano essere anticipati con tempestività e sincronia. Comunque i rumori di ferraglia erano molto distinti, come anche l’evocazione all’uso di strumenti che si addicevano più ad una officina che ad una sala operatoria: scalpello, sega, martello. Vi è stato un momento in cui ho potuto prendere coscienza che la protesi da impiantare era di metallo, considerato il rumore delle martellate alle quali era sottoposta. Anzi, per la sua installazione i colpi venivano preceduti da piccoli colpetti, come se venisse presa la mira per non sbagliare il punto da colpire: tic…tic…TOC! E poi ancora: tic…tic…TOC!
Pur nelle condizioni critiche in cui mi trovavo, un pensiero malvagio ha attraversato la mia mente: e se adesso il “meccanico” si desse una martellata sulle dita, cosa succederebbe? Attraverso la canonica mascherina quale parolaccia, debitamente sterilizzata, potrebbe filtrare?
7) Il pensionato.
Sono ormai trascorsi otto giorni dall’intervento e, passandomi una mano sul viso, mi sono reso conto del perché qualcuno cominciava a guardarmi con una certa curiosità. Con la barba lunga e, ahimè!, bianca stavo somigliando sempre di più ad uno di quei personaggi del neorealismo di Vittorio De Sica: il classico pensionato bianco e smunto, degno soltanto di compassionevole attenzione. E neppure tanta.
8) Disputa teologica.
Sono in procinto di essere trasferito alla Fondazione Don Gnocchi, per iniziare il protocollo della riabilitazione. Però da ormai otto giorni il mio intestino ancora si rifiuta di fare il suo dovere.
Che fare?
Grande dilemma.
Se porto alla Fondazione Don Gnocchi, il cui fondatore verrà proclamato Beato il 25 ottobre prossimo, il “materiale” accumulato presso il San Pietro, quest’ultimo se la prenderà a male?
Potrebbe rivendicarne la proprietà? E il Don Gnocchi approfitterà dell’occasione per sbandierare con soddisfazione un “bottino” non suo? Trattandosi di due istituzioni con solide fondamenta religiose, potrebbe venirne fuori una disputa religiosa. Meglio evitare e “unicuique suum tribuere”.
Dopo alcune manovre oscure, arriva la conclusione. San Pietro: uscita trionfale, in tutti i sensi, con ambulanza più leggera, anche spiritualmente. Don Gnocchi: entrata sorridente e disinvolta, senza pagare dazio per importazioni non consentite.
9) Noblesse oblige.
Il personale paramedico si distingue da quello ausiliario per il colore della divisa: tutta bianca per il primo, celestina per il secondo. Ma al momento della distribuzione del vitto, tutti aggiungono un identico tocco di raffinatezza per meglio sottolineare l’importanza e la delicatezza della circostanza: sulla divisa indossano un grembiulone bianco che dal mento scende fino alle caviglie e, le donne, un vezzoso cappellino bianco con visiera che ad alcune si ferma alle orecchie, assumendo l’aspetto di un elmetto tedesco; per altre, vista la mole del fisico e la massa di capelli, tende ad assomigliare ad un nido di rapace, svuotato e rovesciato. Gli uomini, invece, si annodano dietro la nuca una bandana bianca, che li fa assomigliare, a scelta, ad un pirata buono (per via del colore della stoffa) oppure a B. dopo il famoso impianto tricologico.
10) Puntine d’ago e peperini.
E finalmente sono arrivati i peperini, evocati all’inizio di queste mie riflessioni: una bella scodella di brodo, nel quale annegava un certo quantitativo di questa pastina che assomiglia a pallini da caccia di medio calibro. La posizione scomoda mi consentiva movimenti al rallentatore e, quindi, il pasto procedeva un po’ a rilento. Cosicché, ad un certo punto ho potuto verificare, un po’ preoccupato, che la massa di peperini, che all’inizio era completamente annegata nel brodo, malgrado le cucchiaiate di prelievo alle quali era stata sottoposta, invece di diminuire aumentava, ovviamente non di numero bensì di volume, passando dal calibro medio a quello usato per la caccia grossa, fino a diventare una specie di risotto, non di riso, ma di peperini.
Tornando indietro con la memoria alle puntine d’ago, mi sono ricordato che quest’ultime arrivavano annegate e, inalterate, annegate rimanevano, fino alla loro consumazione finale. Ergo: ignoro, sia per le puntine d’ago che per i peperini, ingredienti e proprietà organolettiche. Ma una cosa è sicura: stiamo attenti a non bere troppo dopo aver mangiato una buona dose di peperini.
Si rischia di vederseli risalire dallo stomaco in su, aumentati del loro volume e, ansiosi di trovare una via d’uscita, trovarseli nel naso e nelle orecchie.
11) Carrozzine.
Fino ad un paio di mesi orsono mi chiedevo spesso cosa si potesse provare rimanendo per
molto tempo seduto in una carrozzina e con la stessa muoversi in lungo e in largo, ricorrendo a complicate manovre per curvare a destra o a sinistra, avanzare o retrocedere, chinarsi per allacciarsi una scarpa e via di seguito. Per non parlare del soddisfacimento di altre esigenze di varia e intuibile natura. Adesso, a circa un mese dall’intervento questa mia curiosità è stata ampiamente soddisfatta e, a detta dei fisioterapisti, tra un paio si settimane potrò abbandonare la carrozzina.
E soltanto ora riesco ad immaginare, anche se non completamente, lo stato d’animo di quelle persone alle quali la sorte è stata così matrigna da condannarle per sempre a quella vita privata della completa padronanza del proprio corpo, in continua dipendenza altrui e nel cuore di un tunnel del quale, in assenza di qualsiasi barlume di luce, non riusciranno mai a percepire l’uscita.
Roma, aprile – maggio 2009
Ospedale San Pietro Fatebenefratelli Fondazione Don Carlo Gnocchi

DALLE PAROLE AI FATTI

Noi lions siamo dei veri volontari? Il lionismo, così come è oggi organizzato e funziona, consente a chi si offre di partecipare a questo impegno opportunità e mezzi per poterlo fare? Cominciamo da questa seconda considerazione, proposta in tempi recenti da un PDG ai lions con apposito questionario e alla quale viene data una risposta agghiacciante: “Il modo di fare lionismo è soddisfacente? Il 60% ha risposto no. Senti la necessità di rinnovarci? L’80% ha risposto si. La nostra associazione è complessa e appesantita? La giudica così il 71%. Non credi che dovremmo rivolgerci verso uno o pochi obiettivi precisi con una azione unica e coordinata? L’82% ha risposto si. Ci si potrebbe fermare qui e chiudere baracca e burattini, anche perché sembra serpeggiare, in alcune persone che fanno opinione, la tendenza ad attribuire ai lions medesimi la responsabilità di questo grigiore, in quanto invece di privilegiare l’impegno civico, “Oggi….troppo spesso (essi lions) prediligono quello umanitario, certamente più semplice e meno faticoso, ma che non dà motivazioni e gratificazioni sufficienti”.
A parte il fatto che personalmente non scorgo nulla di dequalificante nell’impegno umanitario; non ci sarebbe invece da chiedersi che se ciò accade la responsabilità non è da attribuirsi ai club, bensì a chi incontra difficoltà a trasferire nei club proposte e suggerimenti che scaturiscono da riunioni o incontri di studio? Ma ce lo siamo chiesto il perché? Rispondo io con un’altra domanda: ma non è perché il messaggio che viene lanciato pecca di cripticità, di inadeguatezza, di fumosità, di autoreferenzialità? Oppure perché si scontra con “quella che è la qualità della nostra associazione, che ovviamente deriva dalla qualità delle persone che ne fanno parte”? Continuando: “non possiamo nascondere che la debolezza della nostra associazione deriva dal fatto che su 50.000 soci, quelli realmente coinvolti saranno il 5%, il 10%?” Citando la “formazione”, impietosamente un lions, durante un incontro distrettuale, ha affermato: “La formazione a mio parere si prefigge scopi impossibili a raggiungersi”. E poco più avanti, sempre in tema: “un grande avvocato, un professore universitario, lo vogliamo formare: a me viene da ridere, scusate, ma che cosa vuoi formare?”. E si è augurato che venga privilegiata l’informazione, dalla quale potrebbe derivare anche la formazione. Aggiungo io, immodestamente: invece di sforzarsi a cercare di “interiorizzare i nostri Scopi”, dedichiamoci a verificare se nei lions, e in me per primo, si sia presa coscienza e interiorizzato quanto affermato nel Codice dell’Etica Lionistica. A tutta questa serie di lamentele riferite, viene risposto proponendo ancora una volta tavole rotonde, incontri interdistrettuali, “seminari destinati dai club ai nuovi soci”.
Ma mi chiedo: cosa si vuole insegnare ad un nuovo lion, chiunque esso sia nel mondo della produzione, un professore, un magistrato, un commerciante? L’organigramma dell’associazione dalla Sede centrale in giù? Le procedure amministrative o contabili? Il cerimoniale? A cosa serve il Distretto e il Multidistretto? I nuovi soci devono entrare nel club soltanto se “motivati e speranzosi”, ma non di dare la scalata alle cariche, interne o esterne che siano, bensì motivati e speranzosi di realizzare nel concreto il proprio afflato di volontariato e di adesione agli Scopi del Lionismo. Altrimenti è meglio lasciarli a casa!
Ancora una domanda: si è mai pensato che chi si affaccia per la prima volta all’interno dei nostri club possa rimanere perplesso di fronte a “certe cerimonialità che ci danneggiano”, invece di “concentrare la comunicazione sulle cose utili e belle che facciamo”? Perché, riconosciamolo, è proprio dall’eccesso di cerimoniale, di protocollo, di autoreferenzialità su cui vivono da decenni i “soliti noti” che molte volte ci sentiamo infastiditi. “Se privilegiassimo invece la comunicazione delle nostre realizzazioni, non avremmo fatto un grande passo in avanti?” E allora passiamo dalle parole ai fatti! Occorre coinvolgere il mondo che ci circonda e nel quale tutti i Lions sono o sono stati operativi: economia, giustizia, politica, sanità e così via.
Cominciamo a fare politica, vivendo la vita della polis, prendendo coscienza delle necessità della società che ci circonda e nella quale viviamo, talvolta anche in maniera disattenta.
Estratto dalla “Lettera aperta agli amici Soci del Lions Club Roma Aurelium” del 13 febbraio 2009 e pubblicata sulla rivista “The Lion” del febbraio 2010.

PASTORALE

Anche questa mattina, come faccio tutte le settimane dall’agosto del 2004 e cioè dalla sua morte, mi sono recato al Verano per salutare mio fratello e restare un po’ con lui per ritornare con la mente a molti episodi della nostra vita trascorsa insieme. E insieme a mio fratello ricordare l’amico Rinaldo, non potendolo fare da vicino, riposando lui nella sua Belluno.
Prima di scendere dall’auto ed entrare nel riquadro che ospita il suo loculo, mi sono soffermato ad ascoltare l’ultimo movimento della “Pastorale” di Beethoven, che avevo trovato sull’autoradio mentre ero ancora in colonna sulla tangenziale. Ma l’ascolto non mi ha impedito di scorgere, riflessa sullo specchietto retrovisore, l’avanzare lento e insicuro di una coppia di persone che nel loro incedere si sostenevano a vicenda. E mentre lui aveva in una mano una grande borsa e con l’altra si appoggiava al braccio di lei, la donna stringeva al petto un grande fascio di fiori avvolto in alcuni giornali. Ho atteso che la coppia sopravanzasse la mia auto e che continuasse a percorrere il viale che si prolungava avanti a me per ancora un centinaio di metri. Mentre mi sfilavano accanto, ho potuto constatare che, in effetti, si trattava di due persone molto anziane, con difficoltà non lievi nel camminare e che, quindi, procedevano lentamente e con molta cautela, ma non meno decisi nell’affrontare la strada che, evidentemente, li doveva condurre a salutare qualche caro estinto.
Ho seguito con commozione l’andatura lenta e claudicante della coppia fin quando la strada, iniziando a scendere, non me li ha tolti dalla vista. In quei minuti, durante i quali la magica musica di Beethoven volgeva al termine - e forse proprio sollecitato da questa -, alla mia mente si affollarono pensieri ed emozioni, ricordi e sensazioni che ognuno di noi, nel corso della propria vita, raccoglie e custodisce in maniera inconscia e che, come ognuno di noi, se stimolato, estrae da uno dei tanti cassetti che li hanno conservati con cura.
Si è affacciata alla mia mente la scena finale di un film di Charlie Chaplin, di cui non rammento il titolo, nella quale si vedono di spalle il protagonista ed una ragazza mentre si incamminano a braccetto lungo una strada della quale non si vede la fine, ma che si presume porti ad un futuro pieno di amore e di vita. Ebbene, la coppia che amorevolmente si sosteneva a vicenda e che mi si allontanava dalla vista con la sua andatura lenta e claudicante, ha richiamato alla mia memoria quella del film e, dopo aver tentato indiscretamente di insinuarmi nel loro passato e rivivere con essa gli episodi lieti e dolorosi dei quali era stata protagonista e che, generalmente, si assomigliano per ognuno di noi, mi sono chiesto perché anche questa coppia, pur se molto avanti negli anni e visibilmente piena di acciacchi, non la si debba immaginare ancora serenamente incamminata verso un futuro pieno di vita e d’amore.
Però la lunga dissolvenza quasi cinematografica alla quale mi trovavo ad assistere e che si concludeva con la progressiva lenta scomparsa delle due persone dietro il dosso della strada, stava invece assumendo l’aspetto di una loro uscita dalla vita. E a questo mi stavo ribellando: due persone che, benché molto avanti negli anni, mostravano con sì grande evidenza tanto amore sia vicendevolmente tra di loro, sia nei confronti di qualcuno che ora non c’era più e al quale erano destinati i fiori che amorevolmente la donna stringeva al petto, non meritavano, almeno nel mio assurdo desiderio, di uscire da questa vita.
Ovviamente non potevo, inconsciamente, non ricondurre la visione della quale ero testimone a ciascuno di noi, me per primo, fugaci protagonisti in una trama teatrale nella quale noi recitiamo soltanto una brevissima parte, ma della quale non conosciamo né l’inizio né la fine. Ma la tenerezza che quelle due persone avevano suscitato in me, mi spingeva a formulare, come dicevo prima, assurdi desideri di un futuro di vita, alla quale dare e dalla quale ricevere ancora momenti e atti d’amore.
E proprio a questo mi era concesso di assistere, e proprio a questo volgevo i miei pensieri, mentre la coppia di anziani lentamente scompariva sulla strada che iniziava la sua discesa. La discesa della loro visione e, emblematicamente, della loro vita. Come della vita di tutti.
Roma, 8 novembre 2009
Chiesa di Sant’ Anna in Vaticano - Messa in suffragio Soci defunti Pubblicato sul n° 2/2010 di “Lionismo”

GRIMALDI

Caro Direttore, alcune sere or sono ho assistito ad una trasmissione televisiva nella quale era presente, in qualità di ospite intervistato, il teologo Vito Mancuso, noto sia per le sue numerose pubblicazioni (cito quelle da me lette: L’anima e il suo destino; La vita autentica; Disputa su Dio e dintorni, scritta a quattro mani con Corrado Augias), come pure per i suoi articoli come editorialista di “Repubblica”. Di tale intervista mi era rimasto impresso un passaggio, nel quale si sottolineava la circostanza che la famosa regola aurea “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, nota, sembra, fin dai tempi di Confucio, possiamo ritrovarla nel Vangelo di Matteo volta in positivo: “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”. Puoi trovare la frase nel capitolo “Vari precetti” 7. 12.
Ho preso atto della notizia e quasi l’avevo dimenticata, pur essendo andato a scovare l’affermazione di Matteo, rileggendo il suo Vangelo. Senonché, quando ho avuto tra le mani il numero di aprile della rivista The Lion e mi sono imbattuto a pagina 12 nell’articolo scritto dal nostro Past Presidente Internazionale Pino Grimaldi, sono rimasto colpito dall’irruenza con la quale era stato scritto, compattando in poche righe più di mezzo secolo di lionismo italiano, al solo scopo di dovere, al termine della sua disamina, constatare con amarezza che “…gli entusiasmi dei neofiti (che definisce ‘cari estinti’ n.d.r.) non ci siano più”. E di seguito illustra alcune circostanze probanti. E termina il suo scritto dolendosi della circostanza che poveri e sofferenti, malgrado tutto, ancora esistono e noi li lasciamo “…a crogiolarsi (sic!) ovunque in casa e fuori perché pensiamo che in fondo qualcuno se ne occuperà…” e che, quindi, possiamo così sanare il rimorso della nostra coscienza.
Questa amara e, per certi versi, fatalistica argomentazione, ha fatto scattare la molla del ricordo della trasmissione televisiva e del suo contenuto e innanzitutto sono tornato a leggermi il Codice dell’etica lionistica, e più precisamente l’ultima proposizione, quella che inizia con le parole “Essere solidali con il prossimo…”. Poi ho riflettuto sulla grande lezione che dovremmo trarre dalla trasposizione in positivo della regola aurea ricordata prima la quale, intesa come etica del dono, ti invita “ad aiutare chi soffre, perdonare chi ha sbagliato, sollevare chi è caduto”. Ma che tradotta laicamente nell’alterità, ti invita, anche senza la visione religiosa di un premio futuro, a vedere nell’altro noi stessi e quindi al massimo rispetto e solidarietà, nella convinzione che tutti gli esseri umani vengono al mondo dotati degli stessi diritti e con pari dignità.
Alcuni anni orsono, in un numero dei Quaderni del Lionismo, un past Governatore scriveva che la presa di coscienza della propria dignità di uomini da parte di popolazioni da sempre escluse dalla cultura e dal potere, stavano creando sogni di rivalsa, accompagnati da sempre più frequenti conflitti; sogni che avrebbero potuto trovare, da parte del resto del mondo, una giustificazione ricorrendo al concetto di solidarietà, “…un concetto che trae origine dalla constatazione che l’universo mondo è di tutti e che tutti i suoi abitanti debbono trovarvi terreno fecondo di vita.”Sembra troppo temerario allargare il concetto, fino al punto di renderlo universale? Non sarebbe, invece, bellissimo poter prendere atto che questo valore, insieme all’amicizia, al rispetto di tutto ciò che è “altro” e la comprensione, abbia occupato il posto delle crollate conflittuali ideologie? In ultima analisi, a pensarci bene, non è forse questo quel che si pretende da noi Lions, da noi stessi che lo abbiamo accettato quando abbiamo chiesto e ottenuto di entrare a far parte della più grande - attenzione: dico della più grande e non più numerosa - associazione di servizio del mondo?
E prima di concludere, mi sia consentito, con un irrispettoso colpo di mano, di aggiungere ai tre inviti contenuti nella settima esortazione dell’Etica un quarto: la solidarietà alle istituzioni pubbliche, non raramente fatte oggetto di attacchi sconsiderati e di vilipendio verbale non accettabili e non sempre adeguatamente sostenute e ringraziate. Ma, torno a ripetere e con forza, è il service che ci contraddistingue, che ci rende diversi e che, se opportunamente reso visibile, può anche stupire.
Nel corso della mia seconda presidenza, 1999-2000, il Club Aurelium ha ospitato, come conferenziere, il regista Citto Maselli, noto a tutti non soltanto per le sue opere cinematografiche, ma anche per la sua posizione politica. Prima del suo intervento ha avuto modo di ascoltare autorevoli voci del nostro Club e di ricevere informazioni sulla attività nostra e dell’Associazione in generale. Orbene: il regista Maselli ha iniziato la sua conferenza mostrando stupore e meraviglia per quanto aveva appreso, dichiarandosi di trovarsi politicamente spiazzato sul piano della socialità e della solidarietà.
Se ho citato questo episodio non è certamente per avvalorare una nostra collocazione ideologica, ma soltanto per affermare che valori come la solidarietà, l’amicizia, il rispetto di tutto ciò che è “altro”, l’amore, la comprensione, in una parola tutto ciò che preferisce albergare nel cuorepiuttosto che nel cervello, se manifestato e praticato con convinzione e coralmente - e noi possiamo farlo! - ci aiuta a dare concreta attuazione al dettato evangelico riportato da Matteo.
Però vorrei chiudere con le parole di Adam Smith, il campione del liberismo individuale, colui che affermava che ogni operatore economico agisce sul mercato mosso esclusivamente dal suo interesse individuale, il fondatore della scienza economica. Eppure il filosofo scozzese, oltre due secoli e mezzo fa’ scriveva: “Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe della fortuna altrui, che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante che da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla.” Non è forse questa la perfetta definizione di solidarietà?
Ti saluto con affetto.
Enzo Maggi Lettera inviata 4 maggio 2010
al Direttore di “Lionismo”

FIGARO

Caro Dino, ti è mai capitato di interrogarti sul perché a certi individui resta tanto difficile prendere atto che ci sono molte persone che soffrono a causa della miseria che le circonda e che le opprime? E assieme alla miseria possiamo comprendere anche altri disagi di natura morale e fisica, come le malattie.
Te lo sei mai chiesto?
Ebbene: a mio parere la colpa è del barbiere. Non intendo riferirmi al barbiere quale persona che esercita onorevolmente la sua attività artigianale; bensì alla attività in sé, al suo dipanarsi ed esplicarsi sia all’interno della bottega che lo vede protagonista, sia a domicilio.
Mi spiego. Nel lontano 23 giugno 2000, chiudendo il mio intervento di addio come Presidente dell’Aurelium per lasciare la Campana nelle mani dell’amico Giorgio Dori, citai alcune righe del libro di Italo Svevo, “La coscienza di Zeno”, laddove il protagonista Zeno Cosini si sorprendeva pensare che “Ogni mattina, quando mi destavo, il mondo appariva più grigio ed io non me ne accorgevo perché tutto restava intonato; non v’era in quel giorno neppure una pennellata del colore del giorno prima, altrimenti l’avrei scorta ed il rimpianto m’avrebbe fatto disperare”.
E aggiungevo: per questo motivo quando ogni mattina ci radiamo la barba non scoppiamo in lacrime davanti allo specchio.
E torniamo ad occuparci del barbiere; o meglio, della sua attività, alla quale fanno ricorso, prevalentemente, persone che hanno raggiunto elevati livelli di prestigio e di responsabilità nei più svariati campi, in special modo riferiti ad attività decisionali nei confronti della società.
Infatti: come si può immaginare un ministro, un amministratore delegato di una multinazionale, un politico di fama nazionale “et similia”, intento il mattino ad insaponarsi il viso, a cercare il rasoio bilama o multilama (è da escludere quello a mano libera, pena affettate di vario spessore)
ancora valido e magari non trovarlo e ricordarsi poi di procurarselo? Utilizzare il rasoio elettrico non sempre è consigliabile. Si rischia di lasciarsi sfuggire qualche peluzzo ribelle, specialmente tra il lobo e la mascella.
E questo non è elegante. Sono tutte azioni minimali, scoccianti, che fanno perdere tempo e che ti distraggono da altri pensieri ben più importanti. E allora ricorrono al barbiere di fiducia, o nell’odoroso “salone”, o nell’intimità del proprio boudoir. Il figaro li avvolge con delicatezza in un profumato lino, li fa scivolare all’indietro per meglio posizionare il viso, lo studia con dita esperte per meglio individuare il verso pilifero ed eventuali vertigini, lo inonda di morbida schiuma che assomiglia a panna montata e lo fa con delicatezza, usando un pennello più morbido della schiuma. Di tanto in tanto insiste con un polpastrello per meglio spandere il sapone e poi passa alla rasatura, che avviene con dolcezza e sapiente rapidità, non tralasciando una pizzicata alla punta del naso, per meglio tendere la pelle sottostante, senza danneggiare gli eventuali baffi.
E quando infine tutti i pori del viso sono sollecitati ad espellere tossine e scorie sotto l’influsso del tovagliolo bollente che, alla maniera giapponese, lo copre come un sudario, riemergono senza alcuna soluzione di continuità alla loro realtà quotidiana che torna ad assorbirli dopo essere rimasti così, senza pensieri, in una specie di soave dormiveglia. E in questo momento che si pongono davanti allo specchio.
E lo specchio? Quello serve al più per annodarsi la cravatta, per una fugace toccatina alla capigliatura già sistemata (sempreché sia presente!) e per compiacersi per il proprio aspetto elegante e tirato.
E il mondo esterno? “…tutto restava intonato; non v’era neppure una pennellata del colore del giorno prima, altrimenti l’avrei scorta e il rimpianto m’avrebbe fatto disperare.” Non sono queste le considerazioni che invece ti sorprendi a fare quando ti metti davanti allo specchio per la tua quotidiana rasatura. Lo sguardo torvo, ancora assonnato, scorre il tuo viso sul quale scorgi, con orrore, una ulteriore zampa di gallina che ti ostini a chiamare “di espressione”; qualche altro peluzzo tende a scolorirsi; la fronte ha guadagnato altro spazio ai danni dei capelli. E va bene!
Questa è la vita. Seguendo poi distrattamente il cammino del rasoio, ti sorprendi a pensare che non è affatto vero che, specchiandoti tutte le mattine, ti sembra di non essere ancora invecchiato: lo sei e come! E allora ti viene improvviso e inarrestabile il desiderio di chiederti se il cammino che è dietro di te si è svolto secondo le tue aspettative, se hai raggiunto gli obiettivi che ti eri prefissato, se ti sei comportato bene con gli altri e cosa questi pensano di te.
Questo muto colloquio tra te e lo specchio, che ha tanto il sapore di una riflessione-confessione, talvolta si chiude con la tacita promessa che fai a te stesso di più e meglio adoperarti a favore del mondo che ti circonda, adoperarti in qualsiasi modo possibile, da un semplice sorriso ad un impegno importante. Non interessano il luogo, le modalità, le persone, le istituzioni: basta che tu abbia preso coscienza che c’è bisogno del tuo aiuto e che tu intervenga.
Ma se non ti metti davanti allo specchio per raderti, se non ti rivolgi uno sguardo indagatore, se non ti accorgi, riflettendo appena appena un po’, che “…non v’era in quel giorno neppure una pennellata del colore del giorno prima,…”come potrai maturare il desiderio e la volontà di indirizzare più concretamente i tuoi comportamenti a favore della parte di società più bisognevole?
Carissimi, pensosissimi e impegnatissimi signor ministro, A.D. di potentissima multinazionale, politico dalla fronte sempre corrucciata per i gravosi pensieri che l’attraversano, voi tutti preclari e ricercati (in tutti i sensi) personaggi: qualche volta abbandonate il vostro figaro di fiducia e, alla stregua di qualsiasi altro semplice ma sincero mortale, ponetevi di fronte ad uno specchio e, prima di coprire le preziose guance di morbida schiuma, fissate il vostro sguardo diritto nelle vostre pupille: quante cose sarà possibile leggervi!
Roma, 6 giugno 2010
Ti saluto con affetto.
Enzo

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