1) Puntine d’ago.
Ancora una volta sono tornato a soggiornare presso l’Ospedale S.Pietro
Fatebenefratelli sulla Via Cassia. In questa occasione trattasi di protesi
dell’anca destra. Se non ricordo male, dalla prima volta che vi misi
piede sono trascorsi almeno quattro anni e, pensavo, certamente molte cose
nel frattempo saranno cambiate, anche nel vitto. Pertanto, più con
curiosità che con ansia ho atteso il vassoio contenente il pranzo,
composto invariabilmente da “vitto iposodico, ipocalorico…”
e via di questo ipo-passo, anche ipoquantitativo, e cosa ti trovo nella minestrina?
Puntine d’ago, così come quattro anni orsono. Allora mi sono
chiesto: ma quante tonnellate di queste puntine d’ago furono acquistate
a suo tempo? Quando mai verranno smaltite? Quanti altri ricoveri dovrò
praticare prima di passare, ad esempio, ai peperini?
2) All’olio.
Alcuni dei vari contorni che accompagnano i secondi piatti compaiono sul mini-
menù, appoggiato sul vassoio, con accanto la scritta “all’olio”.
Ho riflettuto su questa espressione e, una volta scoperchiata la pietanza,
più che paragonarla ad una pura e semplice constatazione di una circostanza
inesistente (l’olio), sembrerebbe una vera e propria esortazione a raggiungere
un obbiettivo (All’olio! All’olio!), come lo fu, a suo tempo,
quella garibaldina “A Roma! A Roma!”. Entrambe hanno avuto identico
destino: frustrate e inascoltate.
3) Personale paramedico e ausiliario.
Ascoltando con atteggiamento indifferente il personale paramedico e ausiliario
che il mattino presto invade la tua camera mettendola sottosopra e rivoltando
anche te come un calzino, hai la possibilità di renderti conto di come
la loro vita è organizzata. La squadra composta di giovani, oltre a
chiedere che durante le operazioni la tv della stanza venga sintonizzata su
di una stazione che trasmette musica 24 ore su 24, cosicché tutto viene
portato avanti con urletti, mugolii e contorcimenti vari, inizia a scambiarsi
notizie e previsioni circa la vita più o meno sentimentale che conducono
fuori dell’ospedale, parlando di discoteche, di proposte di incontri,
di conseguenti performance vissute o già in programma e via di seguito.
Il tutto con grande tuo scorno, visti sia l’età che lo stato
di infermità nel quale ti trovi.
Altri sono invece gli argomenti trattati dalla squadra dei meno giovani: ingrugniti,
quasi in perpetuo inc…avolati, parlano sempre dei loro guai familiari,
di soldi che non bastano mai, di figli che ti scappano da tutte le parti,
di coniugi fannulloni e distratti al punto che si meriterebbero un bel paio
di corna e via di seguito.
A questo punto ti fai un rapido esame di coscienza, ti consoli e la partita,
per quanto ti riguarda, finisce in parità.
4) Il Socio gentile.
La notizia del ricovero si deve essere sparsa in giro e iniziano ad arrivare
telefonate di solidarietà e di richiesta di notizie e previsioni. La
più gentile e “gradita”, considerati gli orari e le abitudini
ospedaliere, è arrivata una sera alle dieci e quaranta allorquando,
a luci spente, tranne quella notturna, stavi dolcemente scivolando in quel
tratto di sonno che sapevi non sarebbe durato molto: presto sarebbero iniziate
le scampanellate di chiamata, i lamenti, altri rumori di fondo di incerta
provenienza. Il tutto accompagnato dalle sacramentazioni degli infermieri,
distolti dalle loro pennichelle.
Il carissimo Socio, che ringrazio ancora una volta, probabilmente sarà
rimasto anche alquanto perplesso circa il mio stato di salute e, chissà,
avrà formulato anche qualche pensiero funesto, sentendo al telefono
una voce assonnata e deformata da un byte respiratorio. Comunque grazie affettuose.
5) Glicemia.
L’ esame del sangue introduttivo ha segnalato qualche punto di glicemia
oltre il cento; cosicché da quel momento in poi tutti i giorni e per
almeno tre volte si è presentato qualcuno con un ago per pungerti un
polpastrello delle dita di una mano, spillarne una goccia di sangue e procedere
alla misurazione. In capo a tre giorni mi si erano fatte tutte le dita delle
mani; cosicché, all’omaccione che mi stava per infilzare per
l’ennesima volta ho proposto di passare alle dita dei piedi. Non sto
a descrivervi lo sguardo inceneritore del boia che, evidentemente, non aveva
apprezzato la battuta. Allora ho tentato di rifugiarmi in corner dicendo:
“Ma se continua così non potrò più suonare il pianoforte.”
Mai suonato, ma tant’è!
Reazione: “E allora er tamburo che ce sta a fa’?”
6) L’officina.
E’ il giorno dell’intervento, praticato in anestesia locale con
puntura epidurale e, pertanto, con la possibilità di percepire distintamente
voci e rumori. Debbo dire che l’equipe chirurgica è rimasta molto
silenziosa: segno che lavorava insieme da molto tempo e gli inviti del capo
più che essere esplicitati, potevano essere anticipati con tempestività
e sincronia. Comunque i rumori di ferraglia erano molto distinti, come anche
l’evocazione all’uso di strumenti che si addicevano più
ad una officina che ad una sala operatoria: scalpello, sega, martello. Vi
è stato un momento in cui ho potuto prendere coscienza che la protesi
da impiantare era di metallo, considerato il rumore delle martellate alle
quali era sottoposta. Anzi, per la sua installazione i colpi venivano preceduti
da piccoli colpetti, come se venisse presa la mira per non sbagliare il punto
da colpire: tic…tic…TOC! E poi ancora: tic…tic…TOC!
Pur nelle condizioni critiche in cui mi trovavo, un pensiero malvagio ha attraversato
la mia mente: e se adesso il “meccanico” si desse una martellata
sulle dita, cosa succederebbe? Attraverso la canonica mascherina quale parolaccia,
debitamente sterilizzata, potrebbe filtrare?
7) Psicoanalisi.
Due giorni dopo l’intervento, di buon mattino, un terzetto di giovani
infermiere allontana con gesto deciso coperte e lenzuola e mette allo scoperto
ciò che normalmente tu scopri quando sei da solo e inizia la pulizia
intima armeggiando con perizia, anche se dolcemente. Per la vergogna ti viene
istintivo chiudere gli occhi e qui accade l’imprevedibile. Ho sempre
nutrito un forte scetticismo circa le facoltà operative della psicoanalisi,
canonico lettino compreso. Ma gli occhi chiusi e il totale abbandono al quale
mi ero lasciato andare mi stavano facendo invece regredire nel tempo, proprio
come in una seduta di analisi e sdraiato sul lettino d’ordinanza. Tanto
all’indietro nel tempo che, ad un certo punto, arrivato rapidamente
all’età dell’infanzia, a completamento degli armeggii di
natura igienica, mi aspettavo una bella infarinata di profumatissimo borotalco
per bebè. Anzi, mi ricordavo che le mammine affettuosamente si chinavano
sul pancino del pargolo e vi deponevano un casto bacetto.
Delusione atroce: niente borotalco, e meno che mai il bacetto, ma un brusco
ritorno alla realtà, accompagnato da un “Ma che te stai pe’
addormì?”.
Questa mia performance involontariamente psicoanalitica, sicuramente evidenziata
da una espressione beatamente beota, non deve essere sfuggita al terzetto.
Infatti, il mattino successivo, dopo lo scoperchiamento delle parti interessate
e dintorni, già con gli occhi chiusi (e non solo per la vergogna, anzi!)
aspettavo l’inizio delle operazioni, mi sono sentito sbattere proprio
lì una specie di straccio bagnato e spruzzato di detersivo, accompagnato
da una intimazione: “Làvate e poi datte ‘n’asciugata”.
Come una iridescente bolla di sapone punta da un malefico bambino dispettoso,
il sogno ha fatto “plop!” e mi sono ritrovato con in mano un ammasso
di cotone idrofilo bagnato, ammalloppato così tenacemente che non c’era
verso di ammorbidirlo per renderlo più gestibile.
La psicoanalisi, da quel momento, aveva perso un potenziale nuovo seguace.
8) Il pensionato.
Sono ormai trascorsi otto giorni dall’intervento e, passandomi una mano
sul viso, mi sono reso conto del perché qualcuno cominciava a guardarmi
con una certa curiosità. Con la barba lunga e, ahimè!, bianca
stavo somigliando sempre di più ad uno di quei personaggi del neorealismo
di Vittorio De Sica: il classico pensionato bianco e smunto, degno soltanto
di compassionevole attenzione. E neppure tanta.
9) Disputa teologica.
Sono in procinto di essere trasferito alla Fondazione Don Gnocchi, per iniziare
il protocollo della riabilitazione. Però da ormai otto giorni il mio
intestino ancora si rifiuta di fare il suo dovere. Che fare? Grande dilemma.
Se porto alla Fondazione Don Gnocchi, il cui fondatore verrà proclamato
Beato il 25 ottobre prossimo, il “materiale” accumulato presso
il San Pietro, quest’ultimo se la prenderà a male? Potrebbe rivendicarne
la proprietà? E il Don Gnocchi approfitterà dell’occasione
per sbandierare con soddisfazione un “bottino” non suo? Trattandosi
di due istituzioni con solide fondamenta religiose, potrebbe venirne fuori
una disputa religiosa. Meglio evitare e “unicuique suum tribuere”.
Dopo alcune manovre oscure, arriva la conclusione. San Pietro: uscita trionfale,
in tutti i sensi, con ambulanza più leggera, anche spiritualmente.
Don Gnocchi: entrata sorridente e disinvolta, senza pagare dazio per importazioni
non consentite.
10) Noblesse oblige.
Il personale paramedico si distingue da quello ausiliario per il colore della
divisa: tutta bianca per il primo, celestina per il secondo. Ma al momento
della distribuzione del vitto, tutti aggiungono un identico tocco di raffinatezza
per meglio sottolineare l’importanza e la delicatezza della circostanza:
sulla divisa indossano un grembiulone bianco che dal mento scende fino alle
caviglie e, le donne, un vezzoso cappellino bianco con visiera che ad alcune
si ferma alle orecchie, assumendo l’aspetto di un elmetto tedesco; per
altre, vista la mole del fisico e la massa di capelli, tende ad assomigliare
ad un nido di rapace, svuotato e rovesciato. Gli uomini, invece, si annodano
dietro la nuca una bandana bianca, che li fa assomigliare, a scelta, ad un
pirata buono (per via del colore della stoffa) oppure a B. dopo il famoso
impianto tricologico.
11) Puntine d’ago e peperini.
E finalmente sono arrivati i peperini, evocati all’inizio di queste
mie riflessioni: una bella scodella di brodo, nel quale annegava un certo
quantitativo di questa pastina che assomiglia a pallini da caccia di medio
calibro. La posizione scomoda mi consentiva movimenti al rallentatore e, quindi,
il pasto procedeva un po’ a rilento. Cosicché, ad un certo punto
ho potuto verificare, un po’ preoccupato, che la massa di peperini,
che all’inizio era completamente annegata nel brodo, malgrado le cucchiaiate
di prelievo alle quali era stata sottoposta, invece di diminuire aumentava,
ovviamente non di numero bensì di volume, passando dal calibro medio
a quello usato per la caccia grossa, fino a diventare una specie di risotto,
non di riso, ma di peperini.
Tornando indietro con la memoria alle puntine d’ago, mi sono ricordato
che quest’ultime arrivavano annegate e, inalterate, annegate rimanevano,
fino alla loro consumazione finale.
Ergo: ignoro, sia per le puntine d’ago che per i peperini, ingredienti
e proprietà organolettiche. Ma una cosa è sicura: stiamo attenti
a non bere troppo dopo aver mangiato una buona dose di peperini. Si rischia
di vederseli risalire dallo stomaco in su, aumentati del loro volume e, ansiosi
di trovare una via d’uscita, trovarseli nel naso e nelle orecchie.
12) Carrozzine.
Fino ad un paio di mesi orsono mi chiedevo spesso cosa si potesse provare
rimanendo per molto tempo seduto in una carrozzina e con la stessa muoversi
in lungo e in largo, ricorrendo a complicate manovre per curvare a destra
o a sinistra, avanzare o retrocedere, chinarsi per allacciarsi una scarpa
e via di seguito. Per non parlare del soddisfacimento di altre esigenze di
varia e intuibile natura.
Adesso, a circa un mese dall’intervento questa mia curiosità
è stata ampiamente soddisfatta e, a detta dei fisioterapisti, tra un
paio si settimane potrò abbandonare la carrozzina. E soltanto ora riesco
ad immaginare, anche se non completamente, lo stato d’animo di quelle
persone alle quali la sorte è stata così matrigna da condannarle
per sempre a quella vita privata della completa padronanza del proprio corpo,
in continua dipendenza altrui e nel cuore di un tunnel del quale, in assenza
di qualsiasi barlume di luce, non riusciranno mai a percepire l’uscita.
Roma, aprile – maggio 2009