IL TESORO DI NAPOLI - CAPOLAVORI DEL MUSEO DI S. GENNARO
Visita guidata 12 gennaio 2013

Nell’accingermi a scrivere questo resoconto della visita che un nutrito gruppo di soci dell’Aurelium ha effettuato domenica 12 gennaio alla mostra di alcuni degli 21mila capolavori del Museo di San Gennaro, esposti con il titolo “Il tesoro di Napoli”, non posso nascondere che, nel varcare l’ingresso di Palazzo Sciarra, sono stato colto da un attimo di commozione: nel lontano maggio del 1955, quell’ingresso fu testimone del mio incerto incedere verso gli uffici del mio datore di lavoro, al cui servizio poi sarei rimasto fino agli inizi degli anni ’90. I locali di Via Marco Minghetti 22 erano a quel tempo occupati dagli uffici della Direzione generale dell’INPS e presso il Servizio del Personale ritirai la lettera di assunzione, con destinazione poco lontana, in Piazza Montedoro. Domenica l’incedere era altrettanto incerto, ma per altri motivi! Nel chiedere venia per questo incipit autobiografico, torniamo alla mostra.
Come possiamo apprendere consultando depliant e informative di varia natura, il Museo di San Gennaro si è venuto formando nell’arco di settecento anni, attraverso donazioni di papi, imperatori, re e altri personaggi di vario lignaggio, ma anche con ex voto, lasciati dal ceto popolare per ringraziare il santo vescovo di Benevento, vittima delle persecuzioni di Diocleziano del quarto secolo, per grazie ricevute o da impetrare. Il valore storico di questa raccolta è inestimabile: viene addirittura ritenuto superiore a quello della Corona inglese e dello Zar di Russia.
Il popolo napoletano, e i suoi amministratori, sembra che avessero avuto per tempo contezza del suo valore e non mancarono di affidarne la custodia ad una Deputazione della Real Casa, una istituzione laica attiva ancora oggi. L’evento è datato gennaio 1527 e oggi, rileggendo la storia di quel periodo, sembra quasi dettato da un presagio di quanto qualche mese dopo, nel maggio dello stesso anno, sarebbe accaduto: i lanzichenecchi di Carlo V d’Asburgo si sarebbero resi protagonisti di quello che oggi noi ricordiamo come “Il sacco di Roma”. E Napoli, tutto sommato, non era poi tanto lontana. Comunque il provvedimento assunto quasi cinque secoli orsono ha svolto egregiamente il suo compito: il Tesoro di San Gennaro non ha mai subito atti di spoliazione o di vendita! Per poterne riscontrare un furto si è dovuti ricorrere alla finzione cinematografica: nel 1966 il regista Dino Risi realizzò il film “Operazione San Gennaro”, interpretato, tra gli altri, da quei mostri sacri che erano Totò e Nino Manfredi, con il finale scontato di una plebiscitaria dimostrazione di affetto da parte del popolo napoletano nei confronti del suo Patrono per recuperare il tesoro sottratto.
Premesso che in questa sede sembrerebbe addirittura velleitario pretendere di passare ad una descrizione delle meraviglie esposte, mi limiterò ad alcune riflessioni, suggeritemi ammirando opere di straordinaria bellezza. Ad esempio, di fronte al gruppo di argento fuso “Tobiolo e l’Angelo”, detto anche San Raffaele, non potuto fare a meno di tornare con la mente alla visione di un altro gruppo, visti i personaggi raffigurati, e cioé a quello molto somigliante di San Rocco, portato in processione il 16 agosto di ogni anno nell’amato paese di Gerano di cui è patrono. Il filo conduttore della mostra, rappresentato dall’arte orafa in tutto il suo splendore, mi ha riportato indietro di qualche anno, nella metà degli anni ottanta, quando mi recai a visitare la mostra degli “Ori di Taranto”, una raccolta di monili in oro che, essendo stati realizzati in un periodo che va dal quarto al secondo secolo a.C., hanno dell’incredibile, al pari di quelli esposti a Palazzo Sciarra, per l’originalità dell’oggetto, l’eleganza della fattura, la ricchezza del materiale usato, la perfezione della loro conservazione: tutte caratteristiche che accomunano le due esposizioni, siano esse riferite ad una fibula, ad un bracciale, a degli orecchini, come ad una collana, ad un ostensorio, ad un calice, ad una pisside. Sono rimasto particolarmente colpito dalla mitra realizzata da Matteo Treglia nel 1713 e mi sono chiesto come era possibile che sulla testa di un uomo, sia pure pontefice, potesse essere posto un oggetto dal non lieve peso e rimanervi per tutto il tempo infinito di una cerimonia religiosa. Roba da mezza dozzina di aspirine!
Poi mi sono rifugiato in una risposta che mi ha reso possibile la prosecuzione dell’itinerario della mostra: da quando l’uomo ha iniziato a credere in una qualsiasi divinità che gli garantisse una qualche prosecuzione della sua vita terrena in altri luoghi e modi e questa garanzia venisse offerta e prospettata da interpreti che riscuotevano credibilità e autorevolezza, questi stessi personaggi non potevano non sottolineare con gesti e abbigliamenti fuori della normalità il loro porgersi, sia come visibilità che attendibilità. In poche parole: in tutti i modi avrebbero dovuto distinguersi. Il guaio è che questo accade - ed è accaduto! - non solo nella vita delle religioni, ma anche nella quotidianità laica, con risultati talvolta comici, in altri purtroppo tragici. (Enzo Maggi)

 

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