Nell’accingermi a scrivere questo resoconto della visita che
un nutrito gruppo di soci dell’Aurelium ha effettuato domenica
12 gennaio alla mostra di alcuni degli 21mila capolavori del Museo
di San Gennaro, esposti con il titolo “Il tesoro di Napoli”,
non posso nascondere che, nel varcare l’ingresso di Palazzo
Sciarra, sono stato colto da un attimo di commozione: nel lontano
maggio del 1955, quell’ingresso fu testimone del mio incerto
incedere verso gli uffici del mio datore di lavoro, al cui servizio
poi sarei rimasto fino agli inizi degli anni ’90. I locali di
Via Marco Minghetti 22 erano a quel tempo occupati dagli uffici della
Direzione generale dell’INPS e presso il Servizio del Personale
ritirai la lettera di assunzione, con destinazione poco lontana, in
Piazza Montedoro. Domenica l’incedere era altrettanto incerto,
ma per altri motivi! Nel chiedere venia per questo incipit autobiografico,
torniamo alla mostra.
Come possiamo apprendere consultando depliant e informative di varia
natura, il Museo di San Gennaro si è venuto formando nell’arco
di settecento anni, attraverso donazioni di papi, imperatori, re e
altri personaggi di vario lignaggio, ma anche con ex voto, lasciati
dal ceto popolare per ringraziare il santo vescovo di Benevento, vittima
delle persecuzioni di Diocleziano del quarto secolo, per grazie ricevute
o da impetrare. Il valore storico di questa raccolta è inestimabile:
viene addirittura ritenuto superiore a quello della Corona inglese
e dello Zar di Russia.
Il popolo napoletano, e i suoi amministratori, sembra che avessero
avuto per tempo contezza del suo valore e non mancarono di affidarne
la custodia ad una Deputazione della Real Casa, una istituzione laica
attiva ancora oggi. L’evento è datato gennaio 1527 e
oggi, rileggendo la storia di quel periodo, sembra quasi dettato da
un presagio di quanto qualche mese dopo, nel maggio dello stesso anno,
sarebbe accaduto: i lanzichenecchi di Carlo V d’Asburgo si sarebbero
resi protagonisti di quello che oggi noi ricordiamo come “Il
sacco di Roma”. E Napoli, tutto sommato, non era poi tanto lontana.
Comunque il provvedimento assunto quasi cinque secoli orsono ha svolto
egregiamente il suo compito: il Tesoro di San Gennaro non ha mai subito
atti di spoliazione o di vendita! Per poterne riscontrare un furto
si è dovuti ricorrere alla finzione cinematografica: nel 1966
il regista Dino Risi realizzò il film “Operazione San
Gennaro”, interpretato, tra gli altri, da quei mostri sacri
che erano Totò e Nino Manfredi, con il finale scontato di una
plebiscitaria dimostrazione di affetto da parte del popolo napoletano
nei confronti del suo Patrono per recuperare il tesoro sottratto.
Premesso che in questa sede sembrerebbe addirittura velleitario pretendere
di passare ad una descrizione delle meraviglie esposte, mi limiterò
ad alcune riflessioni, suggeritemi ammirando opere di straordinaria
bellezza. Ad esempio, di fronte al gruppo di argento fuso “Tobiolo
e l’Angelo”, detto anche San Raffaele, non potuto fare
a meno di tornare con la mente alla visione di un altro gruppo, visti
i personaggi raffigurati, e cioé a quello molto somigliante
di San Rocco, portato in processione il 16 agosto di ogni anno nell’amato
paese di Gerano di cui è patrono. Il filo conduttore della
mostra, rappresentato dall’arte orafa in tutto il suo splendore,
mi ha riportato indietro di qualche anno, nella metà degli
anni ottanta, quando mi recai a visitare la mostra degli “Ori
di Taranto”, una raccolta di monili in oro che, essendo stati
realizzati in un periodo che va dal quarto al secondo secolo a.C.,
hanno dell’incredibile, al pari di quelli esposti a Palazzo
Sciarra, per l’originalità dell’oggetto, l’eleganza
della fattura, la ricchezza del materiale usato, la perfezione della
loro conservazione: tutte caratteristiche che accomunano le due esposizioni,
siano esse riferite ad una fibula, ad un bracciale, a degli orecchini,
come ad una collana, ad un ostensorio, ad un calice, ad una pisside.
Sono rimasto particolarmente colpito dalla mitra realizzata da Matteo
Treglia nel 1713 e mi sono chiesto come era possibile che sulla testa
di un uomo, sia pure pontefice, potesse essere posto un oggetto dal
non lieve peso e rimanervi per tutto il tempo infinito di una cerimonia
religiosa. Roba da mezza dozzina di aspirine!
Poi mi sono rifugiato in una risposta che mi ha reso possibile la
prosecuzione dell’itinerario della mostra: da quando l’uomo
ha iniziato a credere in una qualsiasi divinità che gli garantisse
una qualche prosecuzione della sua vita terrena in altri luoghi e
modi e questa garanzia venisse offerta e prospettata da interpreti
che riscuotevano credibilità e autorevolezza, questi stessi
personaggi non potevano non sottolineare con gesti e abbigliamenti
fuori della normalità il loro porgersi, sia come visibilità
che attendibilità. In poche parole: in tutti i modi avrebbero
dovuto distinguersi. Il guaio è che questo accade - ed è
accaduto! - non solo nella vita delle religioni, ma anche nella quotidianità
laica, con risultati talvolta comici, in altri purtroppo tragici.
(Enzo Maggi)