DIBATTITO SULLE CULTURE


Una improvvisa emergenza familiare non mi ha consentito di svolgere, domenica 26 novembre 2006, il mio intervento al Congresso di autunno a Pomezia sul tema congressuale "Dibattito sulle culture" per il quale mi ero prenotato il giorno prima. Comunque il testo è stato pubblicato successivamente dalla rivista "Lionismo" sul numero 3 dell'annata 2006-2007".

La prima reazione in me suscitata dalla lettura del tema congressuale proposto è stata di grande meraviglia, considerando che, assegnando ai cinque relatori ufficiali appena sessanta minuti alla trattazione di un tema così arduo e impegnativo, si sarebbe dovuto fare affidamento su oratori preparati e in possesso di poteri di sintesi talmente elevati da consentire loro, in un breve lasso di tempo, di illustrare e commentare le varie culture presenti e, perché no?, passate, vagliandole e giudicandole al fine di formulare una proposta di scelta verso “…il modello più idoneo per una società moderna, globalizzata, in continuo e veloce divenire.”
Comunque il tema mi è apparso subito stimolante e, quindi, mi accingo a tentare l’avventura di una riflessione, certamente non all’altezza di tanti dotti interlocutori. Comunque ci provo, dopo aver dedicato un po’ del mio tempo di pensionato a letture, consultazioni e anche a qualche lontano ricordo che mi ha fatto tornare alla mente le sudate carte di Nicola Abbagnano e di Paolo Lamanna.
Cosa si deve intendere per cultura? La risposta data dal mondo ellenico era la conoscenza di se stesso e della comunità in cui si vive e ci si realizza, ottenuta attraverso le buone arti della poesia, dell’eloquenza e della filosofia, così come affermavano Platone e Aristotele. Concetto che peraltro escludeva qualsiasi attività utilitaria, affidata a schiavi e servi e, quindi, elitario ed aristocratico.
Concetto in parte ripreso nel Medioevo per preparare l’uomo ai suoi doveri migliori e alla vita ultramondana, utilizzando principalmente come strumento la filosofia, ritenuta idonea allo scopo, al punto da potersi sintetizzare nel detto “philosophia ancilla theologiae”.
Il carattere aristocratico della cultura, mantenuto ancora durante il Rinascimento, venne posto in discussione dall’Illuminismo e l’Enciclopedia francese fu la massima espressione della tendenza di ritenere la cultura non già patrimonio dei dotti, ma rinnovamento della vita sociale e individuale in un ideale di universalità che, per noi moderni, costituisce l’aspetto essenziale della cultura.
Giunti a questo punto con la brevissima disamina storica, cerchiamo di individuare quale tipo di cultura dovremmo oggi privilegiare, tentando così di rispondere al quesito posto nel tema congressuale.
Una risposta auspicabile è nella formazione armonica ed equilibrata dell’uomo come tale, la più completa possibile, autenticamente aperta - in altre parole, umana - che si richiami in qualche modo alla classica “paideia” greca. Non va dimenticato, comunque, che la cultura comprende anche il comportamento che l’individuo acquisisce quale membro di una società, perché la cultura è patrimonio di una società e non l’elaborazione personale ed esclusiva di individui. E lo è al punto tale che qualche studioso fa coincidere i due termini di società e cultura. Infatti, alla base di qualsiasi cultura esistono quelle che gli etnologi chiamano “idee generali” e cioè credenze, capacità, abitudini, modi di agire e tutto quanto altro ancora contribuisce a determinare un ambiente che preesiste all’individuo e lo condiziona. E in tale ambito è bene ricordare che una caratteristica della cultura è quella di essere transgenerazionale e cioè la possibilità di trasmettere, all’interno della società, i propri modelli culturali: operazione indispensabile, perché una cultura è viva e formativa soltanto se, diretta verso l’avvenire, rimane ancorata al passato.
Mi sia permessa una orgogliosa autocitazione. Nella prima pagina del libro dedicato al 40° anniversario del Club Aurelium, al quale ho conferito qualche contributo, è possibile leggere la frase “Per andare avanti, qualche volta bisogna guardare indietro.” E allora andiamo avanti.
Abbiamo appena auspicato per l’uomo una formazione armonica ed equilibrata, autenticamente aperta. Avremo, così, un uomo colto (inteso nel termine fin qui esposto), dallo spirito aperto e libero, pronto a comprendere idee e credenze altrui, anche quando non può accettarle, in quanto non ne riconosce la validità. Comprenderà anche l’esistenza di quelle “idee generali” proprie e altrui delle quali prima si è detto, che non potrà né imporre arbitrariamente, né accettare con passività in forma di ideologie istituzionalizzate, ma che invece dovrà adoperarsi acciocché si formino in modo autonomo e continuamente commisurate alle situazioni reali.
Prego di voler tenere bene a mente questo passaggio, che troverà spazio anche in seguito.
Però, prima tentiamo di rispondere al quesito tematico e cioè dibattiamo sulle culture, perché alla fine si possa passare alla scelta del “modello più idoneo per una società moderna, globalizzata, in continuo veloce divenire”.
Ma è possibile conseguire, sia pure in via di ipotesi di scuola, un simile risultato?
A quanto detto prima circa la esistenza di “idee generali” e originali alla base di qualsiasi cultura, occorre aggiungere quello che affermava il filosofo Ernst Cassirer in tema di sviluppo antropologico: “L’uomo non vive in un universo puramente fisico, bensì in un universo simbolico, dove lingua, mito, arte e religione sono i vari fili che compongono il tessuto simbolico, il complicato tessuto dell’esperienza umana”. E un modello culturale è tanto più efficace quanto più, in assenza di alternative, risulta interiorizzato e trasformato in automatismo inconscio.
A questo punto, dobbiamo inevitabilmente prendere atto che nel mondo abitato esistono varie culture, tutte nate, sviluppate, incardinate, interiorizzate e trasmesse in modo autonomo. Ma altrettanto inevitabilmente dovremmo forse prendere atto che sono ugualmente vissute e praticate in forma ermeticamente chiusa al punto tale che non se ne possa ipotizzare la loro cancellazione e sostituzione con altra? In una società moderna e globalizzata è ancora possibile accettare questa immagine?
Personalmente ritengo che una cultura, intesa così come si è tentato di definire in precedenza, non possa e non debba essere oggetto di violenza tendente a modificarla o, addirittura, ad eliminarla sostituendola con altra. Sarebbe come tentare di introdursi nel DNA di un individuo per modificarlo a proprio piacimento, adducendo motivi di miglioramento. Miglioramento, ma a giudizio di chi?
Tuttavia non possiamo ignorare una circostanza di enorme portata e cioè quel fenomeno che va sotto il nome di globalizzazione che, specialmente sotto la spinta inarrestabile dei nuovi media della comunicazione, ha scardinato quella chiusura ermetica dalla quale le culture territorialmente erano avvinte. Quelle formazioni culturali, fino a ieri separate, sono ormai intrecciate anche al di là delle barriere linguistiche, al punto tale che ogni popolo è diventato vicino di qualsiasi altro e ciò che accade in un punto del globo coinvolge con immediatezza l’intera popolazione mondiale. E tutto ciò è positivo, specialmente se l’intreccio è foriero di comune presa di conoscenza e coscienza di problematiche locali alle quali è possibile porre rimedio soltanto, o più facilmente, collaborando. Però siamo molto lontani dall’ipotesi di una cultura unica. Anzi, si tenta di prefigurare qualcosa molto differente.
Recentemente ho letto su un quotidiano un interessante articolo di uno scrittore tedesco nel quale si affermava che la globalizzazione si presenta non tanto come “…integrazione di contesti di azione e di esperienza al di là dei confini degli stati nazionali”, come in definitiva dovrebbe essere. E per ora mi fermo qui nella citazione e dichiaro che condivido in pieno l’affermazione circa quello che la globalizzazione dovrebbe rappresentare, anche in omaggio a quanto prima chiarito in tema di validità e difesa non preconcetta delle culture.
A questo punto mi sorge un dubbio e mi scuso nell’ipotizzare quanto appresso. Probabilmente nel proporre il tema congressuale, più che alle culture si voleva far riferimento alle civiltà. Se così è, allora il discorso è alquanto diverso e un po’ scivoloso, anche perché, sia pure in forma problematica, nel tema se ne auspica il modello più idoneo e, quindi, lo augura unico per tutti.
Comunque, anche così ipotizzato, non è che dibattere sulle culture vuol dire ignorare le civiltà, perché la civiltà, nella evoluzione della cultura di una società, ne costituisce l’ultimo stadio. Secondo il pensiero filosofico e sociologico tedesco di fine ‘800, la civiltà è una fase della stessa cultura, cui fa seguito secondo uno schema di sviluppo ben definito.
Però, conseguita questa fase di sviluppo, si pone una domanda: cosa si intende per civiltà compiuta e, quindi, da imitare e, addirittura, da imporre? Un patrimonio fondato prevalentemente sulla cultura tecnica? Oppure su quella intellettuale? Oppure morale? E’ evidente che tutti questi elementi concorrono insieme a formare un uomo veramente civile, anche se a qualcuno è sembrato opportuno di poter sostenere che la civiltà è tanto più compiuta quanto più alti sono il complesso tecnologico e materiale, nonché la relativa attrezzatura, oppure i prodotti intellettuali di cui dispone una società. Se questo fosse vero, riferendoci ai prodotti intellettuali, l’Italia, con il suo patrimonio artistico e culturale, dovrebbe considerarsi il Paese più civile del mondo!
Per contro, altri Paesi dovrebbero essere additati come modello di alta civiltà da privilegiare perché in possesso di tecnologie e attrezzature incomparabili, anche se poi magari praticano ancora la segregazione razziale e la pena di morte.
Forse sarebbe auspicabile, perché necessario, un virtuoso mix di tutti i patrimoni sopra citati. Purtroppo la globalizzazione si presenta (e qui riprendo la citazione interrotta poco prima) ) “…come la competizione…per il potere di santificazione della giusta via, il potere di definire cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa è buono e cosa è cattivo, cosa è rischioso e cosa è sicuro. Gli stati che ambiscono a un ruolo egemone (e qui ometto gli stati citati. N.d.A.) si considerano non soltanto nazioni, ma movimenti morali che additano la via all’umanità.”
E questo dovrebbe essere accettato? Quale corte giudicante potrebbe d’imperio riconoscersi legittimata ad esprimere quel giudizio di idoneità cui, stando al quesito congressuale, sembra auspicabile doversi arrivare? Ma che forse globalizzazione vuol significare uniformarsi? Certamente non mancano esempi di uniformità necessitata (vedi la lingua inglese nel controllo del traffico aereo) o di uniformità auspicata (vedi le iniziative che attengono alla lotta alla fame e alla povertà nel mondo). Ma da qui ad auspicare un modello comportamentale unico idoneo per tutta l’umanità ce ne passa di strada.
Mi piace chiudere queste riflessioni riportando quanto ho potuto leggere in un box pubblicato a pagina 14 dell’ultimo numero di “Lionismo”. “La nostra abiura per le graduatorie fra le culture è totale. Non ci sono apodittiche e generali superiorità. Tuttavia esistono tutele e principi strettamente connessi con la natura umana e con il progresso universale la cui compressione fortemente deprime il livello civile e culturale nella sua complessità.” Affermazioni cui aderisco totalmente e con entusiasmo.
Tutto ciò da me affermato e chiarito è racchiuso in queste poche righe, che costituiscono, a mio modesto avviso, il suggello più definitivo ed efficace che poteva essere posto all’ambizioso e un po’ spericolato tema congressuale.
(E. Maggi, 27.11.2006)