La prima reazione in me suscitata dalla lettura del tema congressuale
proposto è stata di grande meraviglia, considerando che, assegnando ai
cinque relatori ufficiali appena sessanta minuti alla trattazione di un tema
così arduo e impegnativo, si sarebbe dovuto fare affidamento su oratori
preparati e in possesso di poteri di sintesi talmente elevati da consentire
loro, in un breve lasso di tempo, di illustrare e commentare le varie culture
presenti e, perché no?, passate, vagliandole e giudicandole al fine di
formulare una proposta di scelta verso “…il modello più idoneo
per una società moderna, globalizzata, in continuo e veloce divenire.”
Comunque il tema mi è apparso subito stimolante e, quindi, mi accingo
a tentare l’avventura di una riflessione, certamente non all’altezza
di tanti dotti interlocutori. Comunque ci provo, dopo aver dedicato un po’
del mio tempo di pensionato a letture, consultazioni e anche a qualche lontano
ricordo che mi ha fatto tornare alla mente le sudate carte di Nicola Abbagnano
e di Paolo Lamanna.
Cosa si deve intendere per cultura? La risposta data dal mondo ellenico era
la conoscenza di se stesso e della comunità in cui si vive e ci si realizza,
ottenuta attraverso le buone arti della poesia, dell’eloquenza e della
filosofia, così come affermavano Platone e Aristotele. Concetto che peraltro
escludeva qualsiasi attività utilitaria, affidata a schiavi e servi e,
quindi, elitario ed aristocratico.
Concetto in parte ripreso nel Medioevo per preparare l’uomo ai suoi doveri
migliori e alla vita ultramondana, utilizzando principalmente come strumento
la filosofia, ritenuta idonea allo scopo, al punto da potersi sintetizzare nel
detto “philosophia ancilla theologiae”.
Il carattere aristocratico della cultura, mantenuto ancora durante il Rinascimento,
venne posto in discussione dall’Illuminismo e l’Enciclopedia francese
fu la massima espressione della tendenza di ritenere la cultura non già
patrimonio dei dotti, ma rinnovamento della vita sociale e individuale in un
ideale di universalità che, per noi moderni, costituisce l’aspetto
essenziale della cultura.
Giunti a questo punto con la brevissima disamina storica, cerchiamo di individuare
quale tipo di cultura dovremmo oggi privilegiare, tentando così di rispondere
al quesito posto nel tema congressuale.
Una risposta auspicabile è nella formazione armonica ed equilibrata dell’uomo
come tale, la più completa possibile, autenticamente aperta - in altre
parole, umana - che si richiami in qualche modo alla classica “paideia”
greca. Non va dimenticato, comunque, che la cultura comprende anche il comportamento
che l’individuo acquisisce quale membro di una società, perché
la cultura è patrimonio di una società e non l’elaborazione
personale ed esclusiva di individui. E lo è al punto tale che qualche
studioso fa coincidere i due termini di società e cultura. Infatti, alla
base di qualsiasi cultura esistono quelle che gli etnologi chiamano “idee
generali” e cioè credenze, capacità, abitudini, modi di
agire e tutto quanto altro ancora contribuisce a determinare un ambiente che
preesiste all’individuo e lo condiziona. E in tale ambito è bene
ricordare che una caratteristica della cultura è quella di essere transgenerazionale
e cioè la possibilità di trasmettere, all’interno della
società, i propri modelli culturali: operazione indispensabile, perché
una cultura è viva e formativa soltanto se, diretta verso l’avvenire,
rimane ancorata al passato.
Mi sia permessa una orgogliosa autocitazione. Nella prima pagina del libro dedicato
al 40° anniversario del Club Aurelium, al quale ho conferito qualche contributo,
è possibile leggere la frase “Per andare avanti, qualche volta
bisogna guardare indietro.” E allora andiamo avanti.
Abbiamo appena auspicato per l’uomo una formazione armonica ed equilibrata,
autenticamente aperta. Avremo, così, un uomo colto (inteso nel termine
fin qui esposto), dallo spirito aperto e libero, pronto a comprendere idee e
credenze altrui, anche quando non può accettarle, in quanto non ne riconosce
la validità. Comprenderà anche l’esistenza di quelle “idee
generali” proprie e altrui delle quali prima si è detto, che non
potrà né imporre arbitrariamente, né accettare con passività
in forma di ideologie istituzionalizzate, ma che invece dovrà adoperarsi
acciocché si formino in modo autonomo e continuamente commisurate alle
situazioni reali.
Prego di voler tenere bene a mente questo passaggio, che troverà spazio
anche in seguito.
Però, prima tentiamo di rispondere al quesito tematico e cioè
dibattiamo sulle culture, perché alla fine si possa passare alla scelta
del “modello più idoneo per una società moderna, globalizzata,
in continuo veloce divenire”.
Ma è possibile conseguire, sia pure in via di ipotesi di scuola, un simile
risultato?
A quanto detto prima circa la esistenza di “idee generali” e originali
alla base di qualsiasi cultura, occorre aggiungere quello che affermava il filosofo
Ernst Cassirer in tema di sviluppo antropologico: “L’uomo non vive
in un universo puramente fisico, bensì in un universo simbolico, dove
lingua, mito, arte e religione sono i vari fili che compongono il tessuto simbolico,
il complicato tessuto dell’esperienza umana”. E un modello culturale
è tanto più efficace quanto più, in assenza di alternative,
risulta interiorizzato e trasformato in automatismo inconscio.
A questo punto, dobbiamo inevitabilmente prendere atto che nel mondo abitato
esistono varie culture, tutte nate, sviluppate, incardinate, interiorizzate
e trasmesse in modo autonomo. Ma altrettanto inevitabilmente dovremmo forse
prendere atto che sono ugualmente vissute e praticate in forma ermeticamente
chiusa al punto tale che non se ne possa ipotizzare la loro cancellazione e
sostituzione con altra? In una società moderna e globalizzata è
ancora possibile accettare questa immagine?
Personalmente ritengo che una cultura, intesa così come si è tentato
di definire in precedenza, non possa e non debba essere oggetto di violenza
tendente a modificarla o, addirittura, ad eliminarla sostituendola con altra.
Sarebbe come tentare di introdursi nel DNA di un individuo per modificarlo a
proprio piacimento, adducendo motivi di miglioramento. Miglioramento, ma a giudizio
di chi?
Tuttavia non possiamo ignorare una circostanza di enorme portata e cioè
quel fenomeno che va sotto il nome di globalizzazione che, specialmente sotto
la spinta inarrestabile dei nuovi media della comunicazione, ha scardinato quella
chiusura ermetica dalla quale le culture territorialmente erano avvinte. Quelle
formazioni culturali, fino a ieri separate, sono ormai intrecciate anche al
di là delle barriere linguistiche, al punto tale che ogni popolo è
diventato vicino di qualsiasi altro e ciò che accade in un punto del
globo coinvolge con immediatezza l’intera popolazione mondiale. E tutto
ciò è positivo, specialmente se l’intreccio è foriero
di comune presa di conoscenza e coscienza di problematiche locali alle quali
è possibile porre rimedio soltanto, o più facilmente, collaborando.
Però siamo molto lontani dall’ipotesi di una cultura unica. Anzi,
si tenta di prefigurare qualcosa molto differente.
Recentemente ho letto su un quotidiano un interessante articolo di uno scrittore
tedesco nel quale si affermava che la globalizzazione si presenta non tanto
come “…integrazione di contesti di azione e di esperienza al di
là dei confini degli stati nazionali”, come in definitiva dovrebbe
essere. E per ora mi fermo qui nella citazione e dichiaro che condivido in pieno
l’affermazione circa quello che la globalizzazione dovrebbe rappresentare,
anche in omaggio a quanto prima chiarito in tema di validità e difesa
non preconcetta delle culture.
A questo punto mi sorge un dubbio e mi scuso nell’ipotizzare quanto appresso.
Probabilmente nel proporre il tema congressuale, più che alle culture
si voleva far riferimento alle civiltà. Se così è, allora
il discorso è alquanto diverso e un po’ scivoloso, anche perché,
sia pure in forma problematica, nel tema se ne auspica il modello più
idoneo e, quindi, lo augura unico per tutti.
Comunque, anche così ipotizzato, non è che dibattere sulle culture
vuol dire ignorare le civiltà, perché la civiltà, nella
evoluzione della cultura di una società, ne costituisce l’ultimo
stadio. Secondo il pensiero filosofico e sociologico tedesco di fine ‘800,
la civiltà è una fase della stessa cultura, cui fa seguito secondo
uno schema di sviluppo ben definito.
Però, conseguita questa fase di sviluppo, si pone una domanda: cosa si
intende per civiltà compiuta e, quindi, da imitare e, addirittura, da
imporre? Un patrimonio fondato prevalentemente sulla cultura tecnica? Oppure
su quella intellettuale? Oppure morale? E’ evidente che tutti questi elementi
concorrono insieme a formare un uomo veramente civile, anche se a qualcuno è
sembrato opportuno di poter sostenere che la civiltà è tanto più
compiuta quanto più alti sono il complesso tecnologico e materiale, nonché
la relativa attrezzatura, oppure i prodotti intellettuali di cui dispone una
società. Se questo fosse vero, riferendoci ai prodotti intellettuali,
l’Italia, con il suo patrimonio artistico e culturale, dovrebbe considerarsi
il Paese più civile del mondo!
Per contro, altri Paesi dovrebbero essere additati come modello di alta civiltà
da privilegiare perché in possesso di tecnologie e attrezzature incomparabili,
anche se poi magari praticano ancora la segregazione razziale e la pena di morte.
Forse sarebbe auspicabile, perché necessario, un virtuoso mix di tutti
i patrimoni sopra citati. Purtroppo la globalizzazione si presenta (e qui riprendo
la citazione interrotta poco prima) ) “…come la competizione…per
il potere di santificazione della giusta via, il potere di definire cosa è
giusto e cosa è sbagliato, cosa è buono e cosa è cattivo,
cosa è rischioso e cosa è sicuro. Gli stati che ambiscono a un
ruolo egemone (e qui ometto gli stati citati. N.d.A.) si considerano non soltanto
nazioni, ma movimenti morali che additano la via all’umanità.”
E questo dovrebbe essere accettato? Quale corte giudicante potrebbe d’imperio
riconoscersi legittimata ad esprimere quel giudizio di idoneità cui,
stando al quesito congressuale, sembra auspicabile doversi arrivare? Ma che
forse globalizzazione vuol significare uniformarsi? Certamente non mancano esempi
di uniformità necessitata (vedi la lingua inglese nel controllo del traffico
aereo) o di uniformità auspicata (vedi le iniziative che attengono alla
lotta alla fame e alla povertà nel mondo). Ma da qui ad auspicare un
modello comportamentale unico idoneo per tutta l’umanità ce ne
passa di strada.
Mi piace chiudere queste riflessioni riportando quanto ho potuto leggere in
un box pubblicato a pagina 14 dell’ultimo numero di “Lionismo”.
“La nostra abiura per le graduatorie fra le culture è totale. Non
ci sono apodittiche e generali superiorità. Tuttavia esistono tutele
e principi strettamente connessi con la natura umana e con il progresso universale
la cui compressione fortemente deprime il livello civile e culturale nella sua
complessità.” Affermazioni cui aderisco totalmente e con entusiasmo.
Tutto ciò da me affermato e chiarito è racchiuso in queste poche
righe, che costituiscono, a mio modesto avviso, il suggello più definitivo
ed efficace che poteva essere posto all’ambizioso e un po’ spericolato
tema congressuale.
(E. Maggi, 27.11.2006)