Caro Presidente,
ti sono veramente grato di avermi designato quale coordinatore di un comitato
operativo, anche se mi sono reso da subito conto che l'argomento assegnato alla
nostra attenzione appariva estremamente delicato.
Delicato perché non soltanto di massima e palpitante attualità,
ma anche perché destinato a toccare in ognuno di noi sentimenti e convinzioni
che non desidero definire contrapposti, ma sicuramente non sempre collimanti.
Per questo mi sforzerò di trattarlo da una visuale la più obiettiva
possibile, concedendo nulla o poco - almeno così spero - a valutazioni
personali.
Credo che prima di tutto occorra dare un rapidissimo sguardo a quella che possiamo
definire la genesi storico-politica del fenomeno "immigrazione". Ovviamente
qui si parla di immigrazione extracomunitaria.
Perché popolazioni del cosiddetto Terzo o Quarto mondo sentono oggi irrefrenabile
il desiderio di lasciare le loro terre e di approdare nel mondo industrializzato
e, da noi definito, civilizzato?Quali sono queste popolazioni?
Sarà un caso - ma forse non lo è! - ma si tratta, per lo più,
di popolazioni che per decenni - in qualche caso per secoli - hanno subìto
dominazioni coloniali da parte proprio del mondo occidentale in senso lato,
europeo in particolare.
Dobbiamo, nostro malgrado, riconoscere che quasi tutti i Paesi che hanno avuto
un passato di colonialismo attivo hanno interpretato e praticato nella maniera
più conveniente alle proprie finalità politiche ed economiche
il loro ruolo di colonizzatori, esorcizzando e rifiutando, almeno fino alla
conclusione del secondo conflitto mondiale, la eventualità che la loro
permanenza in altri Paesi potesse avere caratteristiche di ciclo storico e quindi
terminare.
Quelle finalità e questo convincimento, uniti spesso all'altro, più
deleterio, di considerare le popolazioni dominate razze inferiori, hanno fatto
sì che mentre da un lato il Paese dominato rappresentava un serbatoio
per soddisfare esigenze economiche (materie prime, braccia a basso costo, etc.)
e politiche (reclutamento militare), dall'altro lato tenue o addirittura inconsistente
si mostrasse la volontà di contribuire alla sua elevazione sociale.
Già sento serpeggiare tra i presenti reazioni di dissenso, specialmente
in chi ha avuto esperienze di vita in Paesi del Continente africano.
Tengo però a sottolineare che non intendo assolutamente sollevare indici
accusatori verso chicchessia: anzi, sicuramente il nostro Paese nella classifica
delle nazioni miopi non occupa il primo posto e neppure è tra i primi.
Ma ciò non vuol dire che, nella sua complessità, il fenomeno non
abbia riscontri storici obiettivi.
E quando parlo di elevazione sociale intendo riferirmi non soltanto a opere
che tale natura rivestono (case, ospedali, scuole, fabbriche, strade e così
via), ma anche - e, oserei dire, soprattutto - alla formazione di una classe
dirigente autoctona alla quale affidare, durante e dopo la dominazione, il governo
amministrativo del Paese.
Sicuramente ciò ha rappresentato il lato più negativo al quale
si possono far risalire, in massima parte, le difficoltà che oggi angustiano
i paesi sottosviluppati: una fabbrica, una strada, un ospedale si possono realizzare
in un breve numero di anni (non in Italia!); per formare una classe dirigente
molte volte non basta una generazione.
Ecco allora all'indomani della conseguita o conquistata indipendenza (assai
spesso con grande spargimento di sangue e fomentazione di odii insanabili),
abbiamo visto, accanto a scene di profonda miseria e di inconcepibile abbandono,
venire alla ribalta figure losche, prive di scrupoli, sanguinarie le quali,
muovendosi in un tessuto politico-sociale pressoché inesistente e con
la complicità degli antichi dominatori, l'hanno fatta da padroni.
Non cito nomi perché rischierei di provocare incidenti diplomatici. Ma
essi sono presenti alla memoria vostra e mia.
La nostra cultura (nostra in senso lato) fondamentalmente cristiana e quindi
votata al perdono - specialmente nella parte che recita "rimetti a noi
i nostri debiti"!!! - non poteva rimanere insensibile di fronte allo spettacolo
offertoci quotidianamente dall'informazione. Ecco quindi la corsa all'aiuto
ai bisognosi.
Ma poiché la politica dei governanti ha bisogno anche di spettacolo,
questo poteva essere garantito dalla visione di navi ed aerei stracolmi di viveri
e medicinali: beni senz'altro utili. Ma un po' meno pieni di interventi più
mirati e logici, che non lasciano un segno immediato. Senza contare che talvolta
si è trattato di cose delle quali ci si voleva disfare!
Voglio dire che se la nave che partiva per l'Africa fosse stata riempita per
metà di viveri e per l'altra metà di attrezzature destinate a
procurarsi autonomamente nel tempo i viveri stessi, sicuramente oggi qui parleremmo
d'altro.
E non si venga a dire che questo avrebbe avuto valore di confetti dati ai porci:
l'intelligenza e la volontà, se opportunamente educate e sviluppate,
non sono patrimonio esclusivo di una pelle colorata o meno.
D'altronde che simili atteggiamenti di soccorso rispondano più ad esigenze
politiche che sociali (o quanto meno le prime sono più sentite delle
seconde) lo dimostra il fatto che proprio in questi giorni il nostro Ministero
degli Esteri, sempre prodigo di pubblico denaro in ogni angolo del mondo, improvvisamente,
sotto la spinta degli avvenimenti dell'Est europeo, ha più che dimezzato
il proprio contributo ai progetti dell'ONU per dirottarlo al finanziamento di
futuri "Piani Marhall" destinati ai Paesi ex comunisti.
E non parliamo poi delle somme ingenti erogate senza controllo alcuno e che
sono servite in massima parte ad armare le bande dei non sullodati personaggi
e ad impinguare i conti svizzeri dei personaggi medesimi e, sotto forma di tangenti,
di quelli che si rendevano complici della destinazione di morte.
A questo punto come è possibile pensare di frenare l'umano legittimo
desiderio di popolazioni povere da sempre di tentare di dare una svolta alla
loro condizione, muovendo i loro passi verso una società della quale
conoscono tutto, ma più di tutto l'opulenza?
Il nostro pianeta, che ha ormai assunto le caratteristiche di un villaggio globale,
non ha più segreti per nessuno: radio, televisione, cinema, stampa, rapidità
negli spostamenti ne sono state, e ne sono, cause propulsive.
E l'Italia?
Anche il nostro Paese ha conosciuto, agli inizi del secolo, il fenomeno della
emigrazione; certamente alla base non vi erano tutte quelle ragioni che prima
ho elencato, ma alcune sicuramente si.
Prima fra tutte l'estrema povertà nella quale versavano le popolazioni
del nostro Sud, alla quale aggiungere la conoscenza, sia pure indiretta e sfumata,
dell'esistenza di paesi nei quali almeno un lavoro era possibile trovarlo.
E poi, non dobbiamo vergognarci di ammetterlo, la presenza di una classe dirigente
estranea, imposta a seguito dell'unità nazionale, da una classe politica
che dei problemi del Mezzogiorno aveva scarsa e preconcetta conoscenza.
Ma ecco che il nostro contributo alla valorizzazione dei nuovi mondi (stimato
tra i cinque e i sei milioni di persone) dopo il 1950 si esaurisce - anche se
continua all'interno del nostro Paese - e inizia il flusso inverso.
Esaminate, sia pure sommariamente, le motivazioni che spingono le popolazioni
del Terzo mondo ad emigrare, ora dobbiamo chiederci perché prediligono
il nostro Paese o almeno così sembra dal nostro osservatorio di interessati.
In parte può accadere perché il nostro livello economico e il
nostro tenore di vita rappresentano traguardi ambitissimi per molti popoli,
e non soltanto del Terzo mondo.
Ma solo in parte, perché se pensiamo che il reddito pro-capite del nostro
Paese è almeno venti volte più elevato di quello dei Paesi di
provenienza degli immigrati, uno spostamento che obbedisse soltanto a motivazioni
economiche assumerebbe dimensioni bibliche.
Evidentemente vi è dell'altro.
Non è assolutamente il caso di soffermarci sulla figura del rifugiato
politico: questa dà maggiori preoccupazioni, anche se molto limitate,
più sul piano della qualità che della quantità.
E' che noi non possiamo completamente seppellire la memoria storica rappresentata
dalla nostra emigrazione: quanti emigranti o loro diretti immediati discendenti
sono ancora vivi in Italia a ricordare a se stessi e agli altri le sofferenze
patite?
Come pure la diffusa cultura cattolica che si concretizza nel rispetto e nell'aiuto
ai diseredati - e qui recupero, pertinentemente, la seconda parte della preghiera:
"come noi li rimettiamo ai nostri debitori" -.
Ancora: esiste una giustificazione socio-economica secondo la quale la immigrazione
avviene in pratica solo nell'interesse dei Paesi di immigrazione, afferma Massimo
Livi Bacci, ordinario di demografia a Firenze. E questo perché l'economia
dei paesi sviluppati è al settimo anno di espansione, la disoccupazione
sta decrescendo, le popolazioni invecchiano rapidamente, la domanda di lavoro
nei servizi sarà probabilmente crescente.
Tutto vero questo? Riconosco di non essere sufficientemente preparato per una
risposta. Ma una cosa è certa: qualora fosse vero, il nostro Paese dovrebbe
allora munirsi di adeguati strumenti per regolamentare questo fenomeno.
Oggi nessuno strumento esiste se non quello rappresentato dall'art.142 del Testo
Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza del 18 giugno 1931: dico bene, 1931,
più vecchio di me!!!
A parte la necessità di superare pregiudizi nazionalistici e difficoltà
di lingua e di frontiera, oggi assolutamente anacronistici, occorre anche realizzare
un coordinamento con le legislazioni degli altri Paesi, europei e non, che regolamentano
la materia.
La legge 943 del 1986, destinata a sanare situazioni di illegalità è
servita a poco o niente: anzi si può affermare che è servita più
ai datori di lavoro per sanare, senza penalità, esposizioni contributive.
Non è servita perché contemplava la coda del problema e non il
suo manifestarsi e prendere piede. Agli immigrati ha fornito l'occasione, invece,
di suonare una specie di tam-tam sintonizzato su lunghezze d'onda interessate
per far conoscere che in Italia era possibile entrare e rimanervi a proprio
piacimento.
Questo atteggiamento delle nostre autorità non significa affatto democrazia:
perché allora dovremmo dire che la Svezia, dove chi è entrato
come studente e viene trovato a fare altro senza permesso viene gentilmente
ma fermamente accompagnato alla frontiera, dovremmo dire che la Svezia non è
un paese democratico.
Tale stato di cose esistente in Italia e cioè di non politica, può
senz'altro fungere da terreno di coltura per situazioni negative: accattonaggio,
abusivismo commerciale, vagabondaggio, minicriminalità, prostituzione,
spaccio di droga e così via.
Però, lasciatemelo dire, non radicalizziamo troppo il problema. Chi entra
in Italia non necessariamente, perché non è di pelle bianca, porta
con sé un bagaglio di criminalità latente. Anzi, se la cultura
costituisce un insito deterrente alla manifestazione di atteggiamenti contrari
alla legge, dovrebbe rassicurarci, almeno in parte, apprendere che uno studio
condotto dall'ISPES ha rilevato che l'81 per cento degli immigrati è
in possesso di un grado di istruzione che va dalla media alla laurea. Soltanto
il 4 per cento è analfabeta.
Veleggiamo su valori nazionali!
Certo che per arrivare a ipotizzare una società plurietnica, ce ne vuole;
però non mi convince neppure l'affermazione di Francesco Alberoni secondo
il quale la nostra emigrazione era tutt'altra cosa, perché i nostri nonni
erano bianchi e cattolici e questi invece sono di colore, di religione islamica,
faranno i lavori peggiori, accumuleranno frustrazioni e risentimenti.
Forse abbiamo dimenticato che Al Capone e soci avevano un cognome italiano e
che noi abbiamo esportato braccia operose e menti geniali, nel bene e nel male.
Però a me piace chiudere questo mio intervento non in chiave polemica,
bensì ricordando, a me stesso per primo, che all'occhiello porto un distintivo
di appartenenza ad una associazione internazionale che ha, nel suo codice etico,
una proposizione, la sesta, che mi impone di "Essere solidale con il prossimo
mediante l'aiuto ai deboli, il soccorso ai bisognosi, la simpatia ai sofferenti.".
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